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ALZAIN TAREQ, ATLETA BAMBINA

Cosa è giusto o meno chiedere agli atleti in nome dello sport?

La presenza della giovanissima atleta del Barhein nelle ultime competizioni mondiali di nuoto ha sollevato curiosità e interesse nell’opinione pubblica. Alzain Tareq, con i suoi 10 anni di età, ha acceso attorno a sé un dibattito su cosa sia giusto o meno chiedere agli atleti in nome dello sport.

Quando lo sport smette di essere un gioco? Quando è giusto che diventi un impegno a tempo pieno? Chi può deciderlo e seguendo quali riferimenti (economici, normativi, pedagogici, etici, dello sviluppo fisiologico)?

Intervistata prima e dopo la competizione la piccola Alzain ha ribadito di essere la nuotatrice più veloce del proprio Paese, rivendicando così, anche con orgoglio, il diritto a partecipare a questa competizione mondiale. A prima vista, anche se si è dimostrata (inevitabilmente) poco competitiva sotto il profilo atletico, Alzain ha dato l’impressione di sapere cosa stava facendo, comportandosi adeguatamente in gara e nelle interviste.

Quali possono essere, quindi i nostri riferimenti per comprendere e, eventualmente, esprimere una valutazione su questo fenomeno?

Personalmente sottolinerei che a 10 anni si è bambini e che i bambini hanno dei diritti, ivi compreso quando svolgono attività sportiva a livelli molto impegnativi. Questi diritti sono strettamente connessi con i bisogni specifici della loro età, ovvero impegnarsi in attività divertenti, che favoriscano il rapporto con gli altri, dove la pratica sportiva rappresenta un mezzo per esplorare l’ambiente e conoscere il proprio corpo e gli obiettivi sono orientati al benessere e a una crescita armonica, non alla prestazione e tantomeno al risultato. Su questo ben si esprime la Carta dei diritti dei bambini (e dei doveri degli adulti), elaborata e sottoscritta dal Settore Giovanile e Scolastico della F.I.G.C.

Tuttavia è proprio dal calcio nostrano che possiamo avere degli esempi di come non sempre questi bisogni dei bambini siano sempre di ispirazione per gli adulti.

Alzi la mano chi non ha esperienza di allenatori che impostano l’allenamento già sulla scia del sacrificio, introducendo fin da subito esercizi molto tecnici e ripetitivi che “chiudono” l’esperienza invece di “aprirla”. O di quelli che nei tornei schierano sempre i migliori e riservano ai bambini meno dotati gli ultimi scampoli di partita, non sostituendo mai il loro bomber di 10 (9, 8, 7….) anni.

Eppure la pratica sportiva come gioco dovrebbe valere in Bahrein per Alzain, ma anche nei campetti di provincia italiani per tutti i nostri bambini.

Il caso di Alzain è quindi prezioso perché ci permette di riflettere su questi aspetti, che spesso consideriamo inevitabili e connaturati allo sport stesso.

Probabilmente, allora, la questione non è tanto nei termini del diritto o meno di Alzain di gareggiare con gli adulti, ma riguarda l’esperienza di vita che questa bambina sta facendo impegnandosi in un’attività sportiva con tale intensità.

Come vive i dieci allenamenti alla settimana (avrebbe dichiarato di allenarsi due volte al giorno per cinque giorni alla settimana)? Si diverte? Si sente isolata? Riesce ugualmente a giocare e a studiare? A cosa rinuncia? E ancora, come vive l’esperienza delle gare? Chi le sta vicino la “sostiene” o le “mette pressione”?

Un elemento da notare è il fatto che l’allenatore di Alzain sia il padre, tra l’altro ex nuotatore professionista. Questo in sé non significa molto, ma mi vengono in mente le vicende narrate da Agassi nella sua autobiografia, Open, che descrivono l’imposizione del padre verso allenamenti sfiancanti e ossessivi fin da piccolissimo; un’infanzia privata di tutto quanto non fosse tennis (il tennis come il nuoto è uno sport individuale, che sia un caso?); la pressione sfiancante poiché il successo del figlio rappresentava il riscatto per il padre.

Insomma, non proprio una bella situazione, che culminava con l’impossibilità del figlio di fare ciò che a tutte le persone, e ai bambini ancora di più, deve essere garantito, ovvero dire al padre: “Basta! Voglio smettere”.

Agassi non c’è riuscito, ma del resto come fa un bambino a negoziare il proprio impegno con il genitore se questi è anche un allenatore emotivamente molto coinvolto?

Che sia chiaro, non è assolutamente detto che per Alzain la situazione sia questa: quella “in stile Agassi” è solo una tra le infinite possibili colorazioni che può avere questa storia.

Diversamente viene in mente anche Tania Cagnotto: anche lei è figlia d’arte: papà e mamma tuffatori di alto livello, Tania ha cominciato da piccolissima e non ha ancora smesso. E’ stata allenata dalla mamma e da quindici anni è allenata dal papà; continua a vincere titoli mondiali e pare si stia divertendo ancora molto.
(di Andrea Fini - del 2015-08-28) articolo visto 2288 volte

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