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TV DI STATO SENZA PUBBLICITA’: SARA’ MAI POSSIBILE

la decisione del Presidente francese Sarkozy di abolire la pubblicità nella tv di Stato ci fa riflettere sulla possibilità che ciò si verifichi anche nel Bel Paese

Una televisione senza spot (o quasi)? Beh, senza necessariamente prodigarsi in ponderazioni sviscerate sembra semplicemente un’ipotesi fantascientifica, di quelle destinate a spegnersi in “un men che non si dica”, di quelle intrise di romanticismo utopistico e ridicolo, in onore dei tempi andati. Un’eventualità non fattibile, specie in Italia, dove il cieco cinismo la fa da padrone, ove si pensa in primis a far quattrini ad ogni costo, a scapito dell’utente, facendo della ricerca esasperata del lucro l’unico credo.
LA SITUAZIONE IN FRANCIA, UTOPIA IN ITALIA - In Francia ha suscitato a dir poco uno scandalo senza precedenti la scelta del presidente francese Sarkozy di privare la tv pubblica di Stato degli introiti pubblicitari, per una rivoluzione destinata forse a morire sul nascere. Un qualcosa del genere in Italia è assolutamente auspicabile ma nel contempo inattuabile quantunque la RAI richieda agli abbonati un esoso canone annuale che ogni anno diviene fra l’altro sempre più grande, senza che vi sia un adeguato riscontro nella miglioria dei programmi televisivi che anzi non fanno altro che peggiorare in qualità, per una rarefazione sostanziale sulla quale bisognerebbe riflettere non poco.
I dirigenti RAI si curano al massimo dello share, che non sempre è indicativo del gradimento del prodotto che giornalmente viene fornito ai telespettatori. Ma a loro conviene sbandierarlo ogni qual volta se ne presenta l’opportunità al fine di mascherare ad arte lo stato non sempre all’altezza del servizio pubblico. Negli ultimi anni la pubblicità, al pari del canone, sta aumentando in maniera esponenziale, per quella che è un’impennata sgradevole.
MENO SPOT GLI ANNI ’90 - Eppure sino agli anni ’90 la RAI sopravviveva benissimo con degli introiti pubblicitari di medio livello quantitativo. Nella fascia serale (compresa fra le 21 e le 22,45), ad esempio, vi era un solo intervallo pubblicitario, che salivano a 2 all’interno dei varietà. A partire dal nuovo millennio si è avuta improvvisamente l’esigenza di moltiplicarli a dismisura, suscitando nello spettatore una certa insofferenza, rovinando magari dei film d’autore, annacquati da spot incessanti, e ciò, sia chiaro, non si verifica unicamente in TV.
STESSA RADIO, STESSO SPOT - Anche la radio, infatti, è imbottita di “consigli per gli acquisti”, tanto che per seguire interamente un programma bisogna munirsi di tanta pazienza da fare invidia a Giacobbe. E pensare che nei primi tre anni della televisione italiana, dall'esordio della Tv ufficiale del 1954, in Italia, non c'era la pubblicità, che poi sarà confinata in uno spazio a sé, Carosello per intenderci, un siparietto gradevole entrato nel costume degli italiani che nostalgicamente ricordano volentieri. Ancora si discute perché la Rai si decise a sopprimere nel ‘77 una formula di tanto successo.
Il mondo dei pubblicitari cominciava a vedere di mal occhio la stessa creatura che con tanta abilità aveva creato: costi troppo alti, alcuni casi di dubbia efficacia in quanto il telespettatore tendeva a ricordare le scenette e rimuovere l'aspetto reclame.
TV COMMERCIALI E CONSUMISMO = SPOT Poi con l'avvento delle televisioni commerciali e con lo sviluppo del consumismo si moltiplicherà esponenzialmente il numero degli spot. Per porne un fremo nel dicembre 2006 il Parlamento Europeo ha approvato una nuova direttiva che permette un’interruzione pubblicitaria ogni 30 minuti. Il tetto di spot pubblicitari rispetto al tempo globale delle trasmissioni giornaliere, è stato considerevolmente elevato nel tempo. Attualmente, il limite è pari al 18% della programmazione oraria. Un emendamento della legge Gasparri prevede però lo scorporo della televendita dall'attività pubblicitaria. Per tal motivo le televendite non sono più soggette a questo limite per quella che è una contraddizione assurda, come se la stessa legge avesse creato un marchingegno per aggirare se stessa. La pubblicità in ogni modo non nuocerebbe al telespettatore soltanto per il naturale “fastidio” da overdose che cagionerebbe nello stesso.
PROVOCAZIONE PER LASCIARE IL SEGNO… - In proposito, infatti, sono state avanzate disparate teorie, spingendosi magari fuori dall’accezione più elementare del significato del termine fastidio. Secondo dei critici la pubblicità, specie quella che va in onda sullo schermo, farebbe leva spesso e volentieri su dei cliché diseducativi, che puntano evidentemente a disdegnare le persone non belle e ad esaltare i vizi dell’uomo, disprezzando le virtù. La pubblicità vede un fiorire di offerte piene di pin-up, o di maschi super balestrati che si concedono a dei peccati di gola e più gravi come l’adulterio, per delle volgarità che a volte la fanno da padrone. Non è facile farsi notare in mezzo a settemila messaggi pubblicitari. La pubblicità dunque cerca di provocare per incidere meglio sulla mente. Il committente aspira spesso a far vedere un'immagine di novità e audacia. Una pubblicità “spinta”, adoperando simboli religiosi o simili, al limite della blasfemia, oppure che non esiti a fare uso della violenza, può essere una pubblicità trionfante in termini d’influenza sul pubblico, alla faccia dell’etica e della morale, visto che l’unico scopo è far ricordare al pubblico il prodotto. Con ogni mezzo. E in una società sempre più cinica e legata al dio denaro appare sempre meno realizzabile l’utopia di una televisione priva, o che comunque riduca al minimo, la dea pubblicità.
(di Alberto Sigona - del 2009-02-18) articolo visto 2773 volte
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