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DA SANTORO A RUFFINI. LA POLITICA DISTRUGGE LA TELEVISIONE PUBBLICA?

In principio fu l'Editto Bulgaro. Era il 18 aprile del 2002 quando Silvio Berlusconi, nel corso di una conferenza stampa in occasione di una visita ufficiale a Sofia, denunciava quello che a suo avviso era un “uso criminoso” della Tv pubblica, attuato dai giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro, e dall'autore satirico Daniele Luttazzi.
Nella sua affermazione, il premier aggiungeva quindi che sarebbe stato “un preciso dovere da parte della nuova dirigenza RAI non permettere più che avvengano nuovamente tali episodi”.
Quelle dichiarazioni portarono all'allontanamento dei tre dalla RAI, salvo poi tornarci dopo diversi anni (fatta eccezione per il comico romagnolo). I rapporti fra i vertici della politica italiana e il servizio radiotelevisivo pubblico sono stati a dir poco conflittuali praticamente da sempre, anzi le cose sono andate sempre più a peggiorare negli ultimi anni, tanto che ormai le tre reti televisive della RAI sembrano diventate nient'altro che lo strumento politico preferito in mano ai partiti, con buona pace dell'informazione libera.
E questo in un Paese dove la maggioranza della popolazione trae le sue informazioni esclusivamente dalla Tv, e dove il presidente del Consiglio possiede, fra le tante cose, anche l'altra metà del sistema televisivo.
È chiaro quindi ormai a chiunque come la vera battaglia politica italiana non si combatta più nelle piazze, ma nei salotti dell'etere. Sul forum online TeleVisioni (sul sito web del Corriere della Sera), il noto critico televisivo Aldo Grasso, cura una sorta di video-rubrica in cui affronta temi d'attualità sempre legati naturalmente al mondo del piccolo schermo.
Emblematico uno di questi, per l'argomento che stiamo qui trattando, intitolato “Monica Setta e i «morti di fama»”. Grasso si scaglia contro quei politici che “pur di andare in televisione andrebbero dappertutto”. Poco (o niente) importa il dove si appare, anche se si tratta di una trasmissione fondata sulla banalità e sui luoghi comuni. “Morti di fama”, appunto.
E purtroppo sono tanti i programmi della tv pubblica dove c'è un'ideologia nascosta, “un'imparzialità e obiettività ostentata che, di fatto, non esistono e che al contrario suggeriscono un lavorio dietro le quinte che dà molto fastidio”. Diventa, così, sempre più difficile per il telespettatore distinguere la mera informazione dalla propaganda politica.
Anche per questo motivo la RAI, con l'avvicinarsi di un importante evento come le elezioni regionali lo scorso 28 e 29 marzo, ha deciso di sospendere tutte le trasmissioni di approfondimento politico (Porta a Porta, Matrix e Ballarò su tutte) fino al termine della campagna elettorale. Decisione presa proprio per evitare che i partiti potessero controllare la televisione pubblica in un momento così cruciale per il nostro Paese.
Una direttiva, questa, che va oltre il concetto della par condicio, nato proprio per regolare la comunicazione politica non solo durante le campagne elettorali e referendarie, ma anche durante tutto l'anno, volgendo particolare attenzione verso il mezzo radiotelevisivo, in virtù del fatto che la Tv è un medium insostituibile, in grado di raggiungere contemporaneamente milioni di persone e spostare, di conseguenza, altrettanti voti.
Quanto però stabilito dalla nuova dirigenza RAI, se da un lato evita che l'elezione di un politico non venga compromessa da una campagna mediatica montata ad arte o da un giornalista che poi tanto indipendente non è, dall'altro ha causato una quasi totale assenza del dibattito politico che non si era prima d'ora registrata in Italia, e soprattutto in un momento profondamente delicato per la nostra democrazia. Una scelta aziendale, quindi, certamente discutibile.
Questo, senza tener conto di quanto pubblicato guarda caso in quei giorni da alcuni quotidiani: le intercettazioni telefoniche, cioè, tra Silvio Berlusconi, i vertici della RAI e alcuni esponenti dell'autorità garante delle telecomunicazioni, che dovrebbe appunto garantire l'imparzialità e il rispetto delle regole in Tv.
In quelle telefonate il premier cercava in tutti i modi possibili di bloccare alcune trasmissioni di approfondimento politico della RAI a lui poco gradite. Alla luce, quindi, della sospensione di quelle stesse trasmissioni, appare chiaro (quanto meno dubitare) che sia stato il risultato delle pressioni e dell'ingerenza da parte di un politico sul servizio della televisione pubblica che ancor più in quel periodo avrebbe dovuto assicurare ai cittadini un'informazione adeguatamente obiettiva e che invece si è tradotto in un silenzio mediatico mai visto prima in Italia.
Immediata la reazione del vulcanico Santoro (uno degli “epurati”): giovedì 25 marzo è andato in onda su numerosi siti e reti televisive satellitari (senza contare i mega schermi in decine di piazze di tutta Italia) “Rai per una notte”. Tra gli ospiti della serata c'era anche Daniele Luttazzi che, durante il suo monologo, ha affermato: “L'uso che Minzolini (direttore del Tg1, Ndr.) e Berlusconi hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. Erano otto anni che aspettavo di dirlo”, rispedendo così al mittente l'ormai celebre Editto Bulgaro.
L'iniziativa nata da un'idea degli autori di Annozero è stato un esperimento, per altro riuscito, di fare informazione politica e allo stesso tempo aggirare e scavalcare il muro di censura posto dai canali ufficiali. Per la serie: dove non arriva la Tv, riesce il Web. Inevitabile, però, che scoppiasse il “caso Santoro” anche all'interno della stessa RAI e la diatriba fra chi avrebbe voluto una sanzione disciplinare per il conduttore e chi invece lo reputa una risorsa per l'azienda del servizio pubblico.
Nel polverone sollevato da partiti di destra e partiti di sinistra, ci è finito anche il giornalista Paolo Ruffini. Ma facciamo un passo indietro: nel periodo estivo ci fu una lunga discussione in merito alle nomine dei direttori di Raitre (di cui all'epoca Ruffini era direttore) e Tg3. Ruffini venne rimosso a novembre 2009 e al suo posto subentra Antonio Di Bella, nominato da tutto il CdA della RAI, tranne che dal consigliere del Pd, Nino Rizzo Nervo.
Un allontanamento, quello dell'ex direttore, ritenuto dallo stesso come illegittimo e che ne hanno fatto una “vittima politica” della maggioranza del centrodestra. Ruffini, in poche parole, avrebbe pagato con la propria testa, il fatto che molti dei programmi della terza rete (come Report, Parla con me e Che tempo che fa) siano lesivi dell'immagine di Silvio Berlusconi. A niente è servito il ricorso presentato da Ruffini al Tribunale di Roma: non è stato infatti reintregrato alla direzione di Raitre, mandato svolto tuttora da Di Bella.
D'altronde si sa, le nomine in RAI appartengono da sempre ai partiti, che svolgono in maniera legittima il ruolo di azionisti. All'azionista di maggioranza spettano due nomine e a quello di minoranza una. Eppure qualcosa, anche così, fa storcere il naso e il rischio che la Tv pubblica diventi Tv di regime è subito dietro l'angolo, con la conseguente perdita di autonomia del servizio pubblico e quindi anche di credibilità e di rispetto per un'azienda, la RAI, che sembra fare solo passi indietro, arrendevole com'è al potere politico di turno.
Ma proprio la RAI, per il senso stesso del servizio che deve rappresentare, deve evitare assolutamente di entrare nelle dinamiche della battaglia fra partiti. Deve rimanere al di fuori degli scontri di parte perché, come dice il presidente di Utelit Consum, Rocco Monaco, “rappresenta gli italiani e non i partiti che ne hanno occupato gli spazi”. Bisogna quindi ristabilire il senso preciso di servizio pubblico, dato che la televisione che dovrebbe incarnarlo, non perde al contrario mai occasione di venire meno al proprio ruolo.
I politici non fanno che contendersi la RAI per creare consenso e influenzare l'informazione, quando invece l'Italia ha bisogno più che mai di riforme condivise e di un rapporto corretto tra maggioranza e opposizione. La televisione pubblica non è ancora morta, ma di certo non sta messa affatto bene. Probabilmente imbavagliata, di sicuro pigra nei confronti di qualsiasi innovazione che parta dall'interno, stretta com'è nella rete di poteri politico-amministrativi che rendono praticamente impossibile qualsiasi cambiamento.
Necessita di una spinta verso il rinnovamento, che però non può e non deve venire dai partiti, ma dal basso. Magari cominciando ad abrogare alcuni dei privilegi di cui godono oggi quegli stessi partiti nel sistema di governo e gestione della RAI.
(di Matilde Geraci - del 2010-06-25) articolo visto 5109 volte
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