Tommaso, professore torinese di liceo: “Non è facile fare amare l’italiano ai ragazzi”

145

professoreTORINO – Incontriamo Tommaso, sessant’anni, professore a Torino in un liceo. La prima cosa che dice è: “Non è facile fare amare l’italiano ai ragazzi di diciassette, diciotto anni. Ti guardano come un padre un po’ nostalgico. Tu racconti di poeti, di sogni firmati da grandi della letteratura. Ma sempre di sogni si tratta. Non racconti e non parli della realtà. Parole pratiche, che possono essere in qualche modo utili alla vita futura. E quest’anno poi, superato il 2000 da un bel pezzo, mi sono sentito ancora più vecchio, più nostalgico. Il carico degli autori italiani che ho qui sulle spalle, mi pesa, odora di polvere, di stantio. Leggo nei loro occhi l’affetto, quello sì. Ma non di più”.

Vuol dire che non contano su di lei per il futuro?

“Dopo di me c’è il computer, i siti internet, dopo di me si naviga, si contatta tutto il mondo premendo quattro tasti. Non interessa il mio Alfieri, il mio Foscolo, o il pessimismo del mio Leopardi. Si va avanti. E allora quest’anno ho promosso tutti. Tutta le seconda liceo è passata a pieni voti in italiano”.

Non ha voluto alimentare le fantasie di nessuno…?

“Per il futuro, in questo terzo millennio, se la devono cavare da soli. E possono fare a meno dei miei versi, dei miei voli pindarici. Io li vedo negli occhi i ragazzi, quando i miei autori parlano di patria, di atti eroici, di speranze. Mi guardano come un vecchio cantante, che propone motivi orecchiabili di troppi anni fa”.

Probabilmente loro vogliono il “ritmo”…

“Anche in italiano vogliono solo musicalità. Quest’anno ho promosso anche Lamberto D. Il peggiore. Ha una mente matematica, ma vorrebbe eccellere in italiano. Non lo posso aiutare. Il mio ‘regalo’ è stato quello di promuoverlo”.

Perché?

“Ho seguito l’istinto, perché è un ragazzo alla ricerca di una luce nuova. Intuitivo, mentre scrivevo il voto di promozione, che nella sua testa c’era qualcosa di stranamente delicato, come una foglia verde non ancora venuta alla luce. E non mi sbagliavo. Perché sotto il registro nella sala del consiglio, ho trovato un suo biglietto, firmato Lamberto D. L’ho letto già tre volte a voce alta. Mi fa bene leggerlo. Mi riconcilia con i giovani, mi proietta in avanti”.

Lo rileggo:

“Caro professore, ogni volta che lei mi interroga, io mi sotterrerei. Non perché non so rispondere a una data, o non sono in grado di fare una parafrasi, ma perché la deludo. Io credo che la delusione sia una ferita tra le più brucianti del nostro spirito. Ci si appoggia agli altri, e quando questi vengono a mancare, ti senti una nullità. Ti senti solo. Quindi, non risponderle, o peggio ancora dirle una stupidaggine, mi fa del male dentro. Io non seguo il corso di italiano secondo i canoni. Magari so poco dell’Alfieri, che è il suo pallino, ma ho letto i romanzi di Borges, divento pazzo per le poesie di Neruda. Ho un mio mondo, che non è fatto, come lei pensa, solo di numeri. Un mondo  che mi fa sentire tremendamente solo, ma nello stesso tempo autonomo.

Leggo i romanzi più svariati che trovo in libreria, adoro quei saggi dei monaci buddisti, perché mi insegnano a trasformare la rabbia e l’odio in amore per gli altri. Quando ieri mattina ho letto i quadri, giù in portineria, non credevo ai miei occhi. Lei mi aveva promosso. E io inizialmente non capivo perché. Anche i miei compagni mi chiedevano come avevo fatto a convincerla a darmi la sufficienza. Poi ho pensato che forse il monaco buddista, o Borges, o Neruda, a qualcosa sono serviti. Forse a fare in modo che lei intuisse un piccolo mistero della mia ignoranza nei confronti dell’italiano. Io la stimo molto professore, ma più come uomo che come studioso. Penso che l’anima abbia un respiro più ampio, e non si possa fermare a quattro date o a quattro rime. Lei lo sa questo. Ma non può ammetterlo ufficialmente. E allora mi promuove come fosse un atto di pietà. Ma so che per lei è una spinta verso il futuro.

Lo sento, e gliene sono grato. Non so se l’anno prossimo, alla maturità, riuscirò a farla franca in italiano. So soltanto che vorrei poterla incontrare in un bar, vorrei poter parlare con lei di calcio e di poesia, della morte e delle terre più lontane. Solo così ci potremo finalmente conoscere. Professore, mi voglia sempre bene come in quell’istante in cui ha scritto la sufficienza accanto al mio nome. Quando questa storia e la scuola sarà finita, e sarò all’università, tornerò a cercarla. Perché devo ricambiare il suo gesto di fiducia. Ci vedremo in quel bar tra due, forse tre anni. Le presenterò la mia donna. Che forse sarà quella di oggi, almeno così io spero. A lei ho dedicato decine di poesie. Potrà darmi un voto più profondo, che non si ferma all’Alfieri. Un voto che io considererò quella per la vita. Professore, le chiedo la sufficienza prima di iniziare la vera vita. Un abbraccio, e un grazie dal suo Lamberto D”.