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Simone Agostini

“MAKA”, IL NUOVO MONDO MUSICALE DEL CHITARRISTA SIMONE AGOSTINI

Secondo lavoro discografico per il musicista teatino dopo il fortunato “Green”

Un lungo viaggio attorno alla madre Terra, Terra che nel linguaggio dei Sioux si chiama appunto “Maka”. Un viaggio che alla fine ci porterà nello spazio e da lì via lontano fino a scomparire. “Maka” è il secondo lavoro discografico del chitarrista Simone Agostini: intenso, multietnico e ricco di contaminazione, rappresenta in un certo senso un’evoluzione del suo precedente “Green” che già tanto interesse aveva destato fra gli addetti ai lavori ed il pubblico che ne avevano apprezzato le atmosfere acustiche. Questo disco è composto da dieci composizioni ricche di sonorità contaminate e prestigiose featuring strumentali come la viola del Maestro Peppino Pezzulo e ancora il violino di Francesco “Fry” Moneti dei Modena City Ramblers o le percussioni del Maestro Walter Caratelli. La produzione è affidata al cantautore e producer Paolo Tocco che firma anche la regina del videoclip del brano “Outer Space”. Curatissima la veste grafica del cd firmata dall'artista e disegnatore Francesco Colafella.

Rubiamo qualche indiscrezione a Simone Agostini cui chiediamo di raccontare un disco veramente bello del quale si parlerà molto.

Partiamo dalla copertina di “Maka”. Cosa rappresenta e perché questa scelta?

“La copertina nasce dallo splendido lavoro di Francesco Colafella. Discutendo con Paolo Tocco e Francesco, ci era piaciuta molto l’idea di usare un simbolo estremamente stilizzato in copertina, ci sembrava molto in linea con il titolo. Su idea dello stesso Francesco, abbiamo optato per il simbolo alchemico della terra, quella specie di triangolo”.

Da dove nasce la scrittura e l’idea dei tuoi brani?

“I miei brani nascono fondamentalmente da quella che è stata finora la mia vita, sia in termini di esperienze, ma anche e soprattutto in termini di percorso fatto come musicista e chitarrista: maestri, amici musicisti, incontri, musica ascoltata, tutto questo mi ha portato a suonare ciò che suono oggi. Al tutto hanno contribuito anche il mio modo di essere, la mia propensione al cercare di fare musica originale, magari talora frutto di sperimentazione. Penso che nei brani di “Maka” sia possibile riconoscere sia l’influenza che i grandi della chitarra hanno esercitato su di me, sia uno stile personale e originale”.

Quando suoni spesso non arriva la grande tecnica che serve all’esecuzione. Quanta tecnica c’è nel tuo approccio alla musica? Quanto è stato difficile suonare la composizioni che fanno parte di “Maka”?

“Meglio che non si avverti la tecnica quando suono! Reputo la tecnica molto importante per poter ampliare al massimo la propria “paletta espressiva”, ma deve restare una cosa per chi suona la chitarra, fuori deve arrivare solo la musica. Soprattutto nel fingerstyle è molto facile cadere nel tranello perché il pubblico è composto principalmente proprio da chitarristi, ma per me questo punto è cruciale: non voglio scrivere esercizi per chitarra, desidero fortemente o fare musica e siccome lo strumento con cui ho maggiore capacità di esprimermi è la chitarra, uso proprio quello. Se avessi saputo suonare discretamente il piano, forse avrei fatto per metà un disco di piano. È un bene dunque per me che riascoltando “Maka” non sia la tecnica la prima cosa a risaltare. Tornando alla tua domanda, mi risulta difficile quantificare la tecnica. Direi che anche solo arpeggiare tre corde richieda tecnica, nulla può essere lasciato al caso se si vuole avere il controllo completo di ciò che si fa. In generale direi che ho messo tutte le cose che so fare con una chitarra in questo disco, ho scritto musica per quello che è il mio livello tecnico.

Quando si assiste ad un mio concerto live magari ci sono tecniche più appariscenti da vedere e altre che passano inosservate come il lavoro della mano destra nel controllo della durata dei suoni. Se si studia nel giusto modo ed applicandosi al meglio si impara la tecnica e se si continua a studiare si migliora. Come ho detto prima per me è importantissima e mi appassiona molto, ma alla fine è la musica che conta: per questo motivo probabilmente sono sempre stato “allergico” agli esercizi di tecnica pura, ed ho sempre preferito apprendere e raffinare la tecnica studiando brani. Non è questo il luogo per entrare in dettaglio, ma se qualche lettore dovesse avere qualche curiosità più precisa, sarò ben felice di poter rispondere personalmente”.?

Dall’esordio ad oggi. La prima grande differenza tua personale come artista e poi come disco?

“Penso di essere cresciuto come persona e come artista. Probabilmente la differenza più grande tra “Green” e “Maka” è che ho realizzato il primo inconsapevolmente: “Green” è una raccolta di composizioni che ad un certo punto ho voluto racchiudere in un disco. L’idea del disco è arrivata solo in un determinato momento. In “Maka” c’è più intenzionalità, già sapevo dove stessi andando passo dopo passo. Ad aiutarmi poi c’era anche l’esperienza di un album già fatto. Se analizzo le singole composizioni sinceramente non so dirti se in ogni brano di “Maka” ci sia stata un’evoluzione, ma se mi accosto all’intero disco sicuramente apprezzo la strada fatta finora.

Penso inoltre di essere cresciuto tecnicamente sia come esecutore che come compositore ed essere riuscito a colmare alcune criticità che personalmente percepivo in “Green”. Ad esempio i brani di “Green” vengono generalmente definiti molto melodici, ma io percepivo talora l’assenza di una chiara linea melodica cantabile, in “Maka” secondo me questa è presente più spesso. Armonicamente, l’essenzialità, che a lunghi tratti definirei minimalista, è il marchio di entrambi i dischi, in “Maka”, tuttavia, sono consapevole di aver curato maggiormente alcuni dettagli. In definitiva penso di aver raggiunto alcuni obiettivi verso cui ho camminato consapevolmente, poi magari a molti piaceva più il vecchio Simone Agostini, chissà! L’importante a mio giudizio è non restare mai fermi, o muoversi senza direzione”.

Nel disco è contenuta anche una traccia fantasma: come mai questa scelta?

“Si chiama “Sliding Rattlesnake”: sarebbe stato un pezzo perfetto per chiudere il disco, ma il mio intento era invece farlo proprio con “Outer Space”. “Maka” è un viaggio nel nostro pianeta tra luoghi e tempi diversi. Spazio e tempo però hanno significato sulla terra o meglio sono concetti ai quali diamo forma relativamente al nostro essere abitanti della terra. Dunque “Outer Space” è la fuga da questo sistema di riferimento, è la fine del viaggio, il luogo indeterminato dello spazio dove il tempo non scorre mai. Nel viaggio l’unico posto per “Sliding Rattlesnake” era la conclusione: la traccia fantasma è stata un espediente per raccontare un finale differente. Mi piaceva mettere quel brano, ma nello scorrere del disco secondo me non avrebbe trovato un suo posto”.

Credi che Il mondo della chitarra acustica sia poco conosciuto? Pensi possa servire in qualche misura anche questo disco per far conoscere al pubblico il mondo del fingerstyle?

“Probabilmente non è molto conosciuto. A volte è colpa di noi chitarristi che siamo troppo autoreferenziali, esistono pagine stupende di musica che sono certo arriverebbero al cuore di tutti, ed è un vero peccato che invece siano per ora ignote. Negli ultimi anni fortunatamente alcuni chitarristi hanno sfondato questo muro e ho la personale percezione che rispetto a quando mi sono avvicinato io alla chitarra acustica, 15-20 anni fa, ci sia molto più interesse e fermento.

In questo processo la rete è stata sicuramente la chiave per ampliare gli orizzonti, ma siamo comunque molto molto lontani dai numeri di cui godono quasi tutti gli altri settori musicali. Portare il fingerstyle fuori dalla nicchia dei suoi cultori sarebbe davvero un’ambizione di gran lunga fuori dalla mia portata, però nel mio piccolo mi piacerebbe. A questo proposito l’inizio della collaborazione tra me e Protosound parte proprio con questo obiettivo: portare la mia chitarra in un circuito tradizionalmente abituato ad altro”.
(di Piero Vittoria - del 2014-12-29) articolo visto 4309 volte

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