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FINI-BERLUSCONI, LA COPPIA SCOPPIA

Decisa la creazione di gruppi parlamentari autonomi di Futuro e Libertà, il nuovo partito costruito intorno al Presidente della Camera

Il 29 luglio si è consumato lo strappo definitivo. Ma quella tra Berlusconi e Fini era una coppia in crisi da molto tempo. Da mesi separati in casa, ora è arrivata l'ufficialità della fine di un'alleanza politica che andava avanti sin dal 1994 con le elezioni che avevano portato a sorpresa il Cavaliere a Palazzo Chigi e i post-fascisti dell'MSI al Governo. Un'era geologica fa. Ma nella più longeva “coppia” politica della cosiddetta seconda Repubblica non vi era mai stato “amore”: diversi i protagonisti, diversi il modo di fare e intendere la politica, diversissime le storie personali, per non parlare dei partiti di cui erano alla guida.
Tuttavia il rapporto ha funzionato per tanti anni perché cementata da una stessa logica gerarchica. Berlusconi aveva la garanzia di essere il leader della coalizione e Fini, forte dei 16 anni in meno sulla carta d'identità, era il numero due con la consapevolezza che prima o poi la successione sarebbe spettata a lui. Questo schema, semplice e cinico al tempo stesso, ha fatto sì che, nonostante le diversità, l'alleanza reggesse.
UN RAPPORTO POLITICO AMBIGUO - Sin dal novembre 1993, quando le loro strade si incrociarono per la prima volta, con la celeberrima dichiarazione del Cavaliere (“se fossi romano voterei Fini”) alla vigilia del ballottaggio al comune di Roma, la base del loro rapporto politico e personale è stata ambigua e fondata su diverse concezioni. Berlusconi si è sempre considerato lo “sdoganatore” di Fini e del suo partito, prima chiuso in un ghetto politico dai partiti dell'arco costituzionale.
All'opposto il leader di Via della Scrofa, storica sede nazionale dell'MSI prima e di AN poi, ha sostenuto da sempre che lo sdoganamento dei “figli” di Giorgio Almirante è iniziato grazie agli elettori di Roma e Napoli che nel 1993 avevano mandato al ballottaggio lui stesso e Alessandra Mussolini; è stato promosso dalla fine dei partiti dell'arco costituzionale, spazzati via dall'uragano di Tangentopoli; infine è stato definitivamente sancito con il Congresso di Fiuggi del 1995 dove si è abbandonato i miti e le origini neofasciste e si è scelto di costruire una destra moderna e di governo.
UNA LUNGA SCIA DI FRIZIONI - Nonostante la lunga alleanza, durata ben 16 anni, tra le due primedonne del centrodestra è stato un continuo di scontri, frizioni ed espressioni contrariate del volto, anche se sempre ricomposte in funzione della “realpolitik”. Nel 1995, dopo il ribaltone e il Governo Dini, che Berlusconi visse come un tradimento, Fini si oppose all'accordo per mandare a Palazzo Chigi Antonio Maccanico, che avrebbe allontanato le elezioni e indebolito la candidatura di Prodi. Voleva le elezioni con la speranza e la convinzione di superare Forza Italia e diventare così il leader della coalizione, scavalcando Berlusconi.
Ma fece male i conti e AN si fermò al 15,6% (contro il 20,7% di Forza Italia) e per di più vinse la coalizione di centrosinistra guidata dal Professore. Un errore di valutazione che il Cavaliere non ha mai perdonato al suo alleato. Poi vi fu l'esperimento dell'elefantino provato da Fini insieme a Mario Segni alle Europee del 1999. Fu una “scappatella” (infausta anche nel risultato, un misero 10,3%) che Berlusconi digerì con molta fatica. Negli anni vi sono stati altri scontri e scaramucce ma il rapporto si è progressivamente logorato durante gli anni al governo dal 2001 al 2006, seguendo il consueto schema gerarchico con Berlusconi a Palazzo Chigi (numero uno) e Fini vicepremier (numero due).
Un esempio eclatante fu l'allontanamento di Giulio Tremonti, pupillo del Cavaliere e molto legato anche a Bossi, nel 2004 accusato proprio da Fini di eccessivo personalismo nella gestione dell'importantissimo ministero dell'Economia. Il vicepremier vinse la battaglia e ottenne la testa del ministro (anche grazie all'appoggio dei centristi di Casini) ma i rapporti in Consiglio dei Ministri divennero più che mai tesi.
IL VULNUS DELLA NASCITA DEL PDL I problemi più seri, però, hanno una data precisa, 18 novembre 2007. Quella sera l'istrionico Cavaliere con il famoso “discorso del predellino” a piazza San Babila, a Milano, durante una manifestazione di Forza Italia, tirò fuori l'ennesimo coniglio dal cilindro annunciando la nascita di un nuovo partito unitario del centrodestra, il Popolo della Libertà, nato anche in risposta al partito unitario del centrosinistra, il Partito Democratico.
Le parole di Fini alla notizia della svolta di Piazza San Babila esprimevano bene il suo stato d'animo: “siamo alle comiche finali!”. Poi però aderì al progetto ma in ciò fu forzato da almeno due elementi. Innanzitutto erano almeno dieci anni che Fini preconizzava (ma il principale sostenitore era il suo mentore Giuseppe Tatarella, l'ideatore della Svolta di Fiuggi e di AN) l'avvento di un partito unico del centrodestra che fosse più moderno e rivolto al futuro, verso una necessaria semplificazione del quadro politico. Naturalmente quando questo partito stava per nascere non poteva essere liquidato da Fini come una boutade solo perché proposto da altri: il popolo di AN non avrebbe capito.
In second'ordine con la nascita del PdL Fini era “obbligato” ad aderire per evitare possibili fughe di esponenti di AN verso la nuova formazione. Una scelta, dunque, tutt'altro che serena e fatta probabilmente sotto spinte contrastanti ma agli occhi dei commentatori è sembrato che Fini sia stato messo con le spalle al muro, anche se quest'ultimo ha più volte dichiarato la propria convinzione nei confronti del progetto. Tuttavia la dinamica degli eventi in quei primi giorni qualche sospetto lo genera.
FINI BASTIAN CONTRARIO DA MONTECITORIO - Creato il PdL, secondo una logica da “manuale Cencelli” (70% dei posti a Forza Italia, che si faceva carico anche della rappresentatività delle formazioni minori, come la Democrazia Cristiana per le Autonomie e 30% ad Alleanza Nazionale), i problemi sono esplosi. Gli ultimi due anni sono tutto un susseguirsi di dispetti, veleni e polemiche. Un vero stillicidio che hanno appannato l'immagine del partito. Fini, cui lo stesso ruolo di Presidente della Camera sembra contrapporlo al Presidente del Consiglio il cui Governo ha fatto largo uso dello strumento del decreto legge che di fatto esautora il Parlamento, ha svolto la funzione di “contro voce” all'interno del PdL: sull'immigrazione, sulla giustizia, sulle proposte di riforma dell'architettura istituzionale, sul federalismo … Berlusconi, naturalmente, sempre più ha mal sopportato la voce critica dell'altro cofondatore.
Due i principali motivi di scontro: il rapporto privilegiato tra Bossi e Berlusconi visto da Fini come un cappio al collo del PdL e soprattutto il progressivo spostamento degli uomini della vecchia AN verso posizioni vicine a Berlusconi. Infatti durante la XVI legislatura si è assistito ad un progressivo allontanamento di quelli che erano definiti i colonnelli di Alleanza Nazionale (Gasparri, Alemanno, La Russa e Matteoli) dalle posizioni tenute dal Presidente della Camera. In questa situazione ogni dichiarazione difforme dalla linea ufficiale del partito fatta da Fini o dai suoi fedelissimi contribuiva a far salire la tensione e a rendere più pesante l'aria. Inoltre la pesante campagna stampa, che spesso è sfociata nel volgare attacco personale privo di ogni rilievo politico, ostile al Presidente della Camera, accusando di aver dimenticato di essere un uomo di destra (per le sue posizioni sull'immigrazione ad esempio), fatta dai giornali vicini al premier hanno completato il quadro rendendo il clima incandescente.
PDL, UN PARTITO SULLA CARTA - Il problema di fondo tra i due leader, tuttavia, nasce per le loro diverse concezioni circa la struttura del partito. Sarebbe ingenuo non considerare come il PdL, nonostante abbia vinto tutti gli scontri elettorali dal 2008 ad oggi, non sia effettivamente un partito, almeno come è stato inteso nella tradizione italiana. Tutti i dirigenti locali sono stati nominati (secondo la logica del 70% e 30%) e non eletti dagli iscritti, dando libero sfogo al vulnus del correntismo.
Manca dialettica interna perché mancano tutte le strutture inferiori come la rete di circoli sul territorio che facciano politica. Un partito, quindi, non di plastica ma effettivamente sulla carta. Oggi quelli che erano i militanti e gli iscritti di Forza Italia e Alleanza Nazionale (vera linfa vitale di ogni organizzazione politica) sono lasciati in un limbo indefinito.
L'atteggiamento più frequente è l'attendismo: la situazione, specie in periferia, è tanto confusionaria e poco delineata che si preferisce aspettare, non si sa bene cosa. Fini ha sparigliato le carte sul tavolo cercando di introdurre una dialettica interna sui temi più importanti in agenda (un suo cavallo di battaglia era il fatto che il più grande partito italiano non poteva non avere un proprio disegno di riforma istituzionale lasciando de facto questo tema alla Lega) ma, così facendo, tendeva ad essere, nel completo isolamento, il “grillo parlante” del PdL e naturalmente si scavava un solco sempre più profondo con il premier.
LA NASCITA DI “FUTURO E LIBERTA'. PER L'ITALIA” - Berlusconi già ad aprile aveva deciso di interrompere questo stillicidio in modo più o meno traumatico (“nn mi farò cucinare a fuoco lento” aveva confidato ai suoi) e nella direzione nazionale del PdL del 22 aprile vi era stato il primo strappo con la richiesta di dimissioni a Fini (“sennò che fai? Mi cacci?” era stata la risposta beffarda dal Presidente della Camera). Ormai si era capito che le strade si sarebbero divise, nonostante il ruolo di “pontieri” svolto da alcuni parlamentari “finiani” come Andrea Augello, sottosegretario alla Funzione Pubblica, e Sinvano Moffa.
L'epilogo è stato quello che tutti conosciamo. I falchi finiani, Granata e Bocchino, deferiti ai probiviri del partito e la conseguente uscita dal gruppo del PdL di tutti i parlamentari vicini a Fini: 34 deputati e 10 senatori tra cui il ministro Ronchi. Durante la successiva conferenza stampa il Presidente della Camera ha annunciato la costituzione del nuovo soggetto politico chiamato “Futuro e Libertà. Per l'Italia”, accusando Berlusconi di concezione illiberale della democrazia e di scarso rispetto per la dialettica interna al partito (dimenticando forse come in AN vi fosse un Presidente, lui appunto, che allo stesso modo non tollerava nessuna voce discorde dalla sua). Alea iacta est
PROBABILI SCENARI FUTURI - Alla Camera, senza i numeri del gruppo “finiano” Berlusconi non ha una maggioranza sufficiente a sostenere il suo governo. E' un problema non da poco e paradossale se si considera la maggioranza di cui godeva all'inizio della legislatura. Tuttavia Fini ha dichiarato che il suo gruppo esce sì dal PdL ma non dalla maggioranza, quindi continuerà ad assicurare i numeri sufficienti per l'approvazione dei provvedimenti per questioni contenute nel programma della coalizione di centrodestra della campagna elettorale 2008. Aggiungendo, però, che “Futuro e Libertà. Per l'Italia” non sosterrà quei “provvedimenti ritenuti ingiusti”.
Ciò equivale a mettere un'ipoteca sul Governo. Berlusconi lo sa bene e ora ha davanti a sé due strade: trovare in Parlamento una maggioranza sufficiente e fare a meno del gruppo “finiano”, facendo “campagna acquisti” tra i deputati della minoranza (vista l'indisponibilità di Casini a entrare nell'esecutivo in pianta stabile) oppure rovesciare il tavolo e ritornare alle urne. Con questa legge elettorale, infatti, basta un solo voto in più per accaparrarsi il premio di maggioranza alla Camera e vincere di nuovo la partita.
Molti segnali danno l'impressione che Berlusconi sia fortemente tentato dalle urne. I sondaggi sembrano delineare una situazione di vantaggio per la coalizione PdL-Lega e questo significherebbe spazzare via Fini (senza un partito organizzato sul territorio è difficile che riesca a superare le soglie di sbarramento, 4% per la Camera e 8% per il Senato, per accedere in Parlamento) e spartirsi, grazie al premio di maggioranza, il 55% dei seggi alla Camera con Bossi. Sarebbe il padrone assoluto della scena e potrebbe fare quelle riforme che Casini e Fini gli hanno impedito, secondo la sua logica, in precedenza. Berlusconi è tentato di azzardare, e le ultime dichiarazioni sembrano far presagire questo scenario. Del resto si sa che il premier non sa trattenersi dal cedere alle tentazioni ...
(di Marco Di Giacomo - del 2010-08-06) articolo visto 5307 volte
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