65° Festival Puccini, intervista a Renzo Giacchieri

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Renzo Giacchieri

Renzo Giacchieri nel corso degli anni ha ricoperto importanti ruoli di gestione e organizzazione dei Teatri e degli Enti Lirici: dal 1982 al 1986 è stato Sovrintendente dell’Ente Lirico Arena di Verona, dal 1986 Direttore del Festival Pucciniano di Torre del Lago, dal 1980 al 1990 Sovrintendente presso il Teatro San Carlo di Napoli. Lo ha intervistato in occasione della messa in scena de La fanciulla del West di Puccini, che andrà in scena il 12 e 26 luglio nell’ambito del Festival di Torre del Lago: ne cura la regia, i costumi, la scenografia e le luci.

Quando si deve mettere in scena un’opera come La Fanciulla del West, mentalmente come si comincia?

Studiandola come mi capitò la prima volta che la misi in scena: non avevo verso la Fanciulla un atteggiamento molto costruttivo, mi sembrava ingenuotta, con questa nostalgia incombente. Poi, invece, una volta che cominciai a studiarla, ne sono rimasto affascinato perché è un’opera bellissima e ogni volta metterla in scena per me è un rinnovare questo amore verso la Girl, come la chiamava Puccini.

Dopo anni dalla prima messa in scena ha riscoperto qualche aspetto che magari prima aveva sottovalutato o messo in secondo piano?

Forse l’apporto del coro: non l’ho mai messo in secondo piano, però mi sembrava meno importante e invece, insieme ai comprimari, il coro nel primo e soprattutto nel terzo atto diventa protagonista.

Curare allo stesso tempo regia, luci, scene e costumi semplifica o complica la vita di un regista?

La semplifica perché significa che la chiave di lettura è unica e quindi non ha bisogno il regista di far capire al suo scenografo che cosa intende che il pubblico veda subito come contenitore della propria regia, quindi semplifica molto almeno secondo me. È una visione globale, unificata.

Puccini compose l’opera a più riprese…

Puccini nel 1907 vede il dramma di Belasco. Nel ’10 c’è la prima della Fanciulla al Metropolitan: passano tre anni perché lui ha avuto grandi problemi con i suoi due librettisti Civinini e Zangarini: era la prima volta che li incontrava, ha avuto degli scontri, si lamentava molto -c’è tutto il carteggio- con Ricordi, perché i due avevano paura di questa meticolosa costruzione che faceva Puccini, tant’è vero che con la Girl lui fa una meticolosissima descrizione della messa in scena, dei caratteri e arriva a descrivere i singoli costumi come un costumista. Straordinario.

È un’opera che gli appartiene in tutto insomma…

Assolutamente: più di ogni altra, sotto questo punto di vista. Da una parte risulta un vantaggio perché c’è poco da inventare, dall’altra c’è il pericolo – dato che i gusti son cambiati – di tradirla. Io spero di non tradire questa costruzione così meticolosa.

C’è qualcosa nella Fanciulla del West ama di più o di meno?

No, perché ci sono questi interventi del coro, il tema meraviglioso della nostalgia, c’è il tema del ballo; anche se non ha grandissime arie, è tutto l’insieme, è molto wagneriana come spirito, come cultura. Sì, ci sono le arie che poi ha inserito ma sono brevi, non sono arie lunghe: è l’insieme, questo continuo musicale che affascina.

Effettivamente dall’opera ci si aspetta una forma di arte totalizzante in tutti i suoi elementi…

Certo, l’opera è la forma di spettacolo visuale più complessa e completa.

Lei ha fatto una tesi di laurea su Wagner, ha diretto opere di Verdi e di Puccini: secondo la sua esperienza, quali sono le reazioni del pubblico italiano verso le loro opere?

Wagner lo sopporta, se posso dire così. C’è stato un breve periodo in Italia in cui la cultura amò Wagner, nei primi anni del Novecento. Si sopporta perché i suoi drammi musicali sono molto lunghi, richiedono una conoscenza dei miti cui attingono, è un’operazione complessa essere spettatore di una proposta wagneriana. Al contrario di quel che accade con Verdi e Puccini ancor di più, perché è la vera opera lirica italiana: al massimo della scala come melodramma dell’opera lirica italiana c’è Verdi, al massimo della scala della drammaturgia musicale c’è Wagner, al massimo dell’opera del Novecento c’è Puccini.

La cultura ufficiale che si occupa di finanziamenti sopporta o supporta l’opera?

I finanziamenti ai teatri lirici sono sempre andati diminuendo in questi ultimi decenni, però c’è sempre agio per mettere in scena le opere. Certo, Wagner richiede un’orchestra più grande, strumenti particolari e soprattutto allestimenti incredibilmente imponenti.

Lei si occupa di musica da una vita: nel corso degli anni sono cambiati l’atteggiamento e il gusto del pubblico nei confronti della musica e dell’opera?

C’è una corrente culturale che nasce in Germania e si propaga in Francia, Austria e un po’ anche in Inghilterra, che vuole “l’attualizzazione” dell’opera lirica, ma questo è un errore enorme perché il dramma musicale che attinge dal mito lo puoi attualizzare perché il mito lo attualizzi con la cultura, con la quale tu vivi quel mito, ma l’opera no, l’opera è quella che è: una creatura fragile, una creatura anche ingenua dove i protagonisti nascono vivono e muoiono cantando, quindi è una cosa abbastanza sciocca, se vogliamo. Però c’è una verità superiore, quella della musica. Allora, l’opera ha intatti i suoi messaggi, ha intatti i suoi richiami al sentimento e alla ragione: il problema è darla bene. Se la si dà con verità, il pubblico la apprezza, altrimenti diventa un’operazione culturale e allora il pubblico ci sta perché ci deve stare, altrimenti apparirebbe come un dissennato ignorante, oppure a volte fischia.

A cura di Giovanni Zambito