Calcio, traumi cranici: quali sono i danni e come prevenirli

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Maggiore attenzione della UEFA verso le concussioni e i traumi cranici subiti dai calciatori. Aiace Rusciano, neuropsicologo e neuroscienziato dello sport: “Ai Club spetta il compito di monitorare, affidandosi a tecniche e strumenti scientifici”

MILANO – La notizia è di pochi giorni fa: la Scottish Football Federation (SFA) ha ufficialmente vietato ai bambini di età inferiore ai 12 anni di colpire il pallone di testa. Il motivo? Da anni, svariate evidenze scientifiche dimostrano un collegamento diretto tra l’insorgere di sindromi neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson e il ripetersi di concussioni o traumi cranici frequenti. E lo sport non fa eccezione. Una problematica che è stata anche portata sul grande schermo dal regista Peter Landesman con il film Concussion – Zona d’ombra (2015) in cui Will Smith impersona il dottor Bennett Omalu, che indagò sul presunto squilibrio mentale di una serie di stelle del football e scoprì che la causa era la CTE (Encefalopatia Cronica Traumatica), dovuta agli innumerevoli colpi in testa subiti in carriera.

“La prevenzione di questi danni, soprattutto in ambienti di alto livello, deve diventare un imperativo per i Club. Oggi esistono tecniche di neuropotenziamento mentale e psicofisiologico validate che permettono di tutelare la salute dei calciatori e ottimizzare le prestazioni sul campo, di conseguenza, rappresentano un investimento a lungo termine per il club”, sottolinea Aiace Rusciano, neuropsicologo e neuroscienziato dello sport, già responsabile e project leader dell’area psicologica Mind Room 2.0 di AC Milan – Milan Lab, ora responsabile del Lab di AC ChievoVerona e direttore del Master del Centro Universitario Internazionale in Sport Neuroscience & Human Performance.

Il campionato 2018/2019 di Serie A si è aperto proprio con il portiere del Chievo Verona Stefano Sorrentino ricoverato con un trauma cranico e una frattura al naso dopo il violento scontro con Cristiano Ronaldo (che in un secondo momento si è scusato). Senza dubbio è rimasta nella memoria dei tifosi del Napoli anche la 28a giornata, in cui il portiere David Ospina si è accasciato improvvisamente a terra, mezz’ora dopo un contrasto in uscita con l’attaccante dell’Udinese Ignacio Pussetto. Gli accertamenti hanno dimostrato che si trattava “solo” di un trauma cranico da tenere in osservazione per 24 ore, ma la paura al San Paolo era palpabile. L’episodio più eclatante è stato però forse quello accaduto durante la finale dei Mondiali 2014, Germania-Argentina, che il centrocampista tedesco Christopher Kramer ha completamente dimenticato – pur essendo entrato, per la prima volta, da titolare – dopo l’impatto con Ezequiel Garay. Nessuna conseguenza, gli hanno assicurato i medici. Ma i ricordi di quella notte al Maracanã non torneranno mai più.

Il calcio di alto livello, in sintesi, è costellato di concussioni cerebrali o traumi cranici lievi. “Ai Club, allo staff medico e agli stessi calciatori spetta il compito di porre la massima attenzione a simili episodi, affidandosi alle tecniche e agli strumenti cognitivi scientificamente validati, per monitorare, le prestazioni neuropsicologiche così come quelle fisico atletiche, dando supporto informativo e piani di lavoro specifici per mantenere ad alta efficienza il livello di funzionamento di questi top atleti. A lungo termine, infatti, i traumi possono causare deficit attentivi e cognitivi, che si traducono in cali di rendimento. Si tratta di un duplice rischio: da un lato per la salute dell’atleta, dall’altro per l’investimento del Club”.

Un recente studio condotto dall’Università di Glasgow è arrivato ad affermare che gli ex-calciatori professionisti vanno incontro a un rischio di demenza pari a tre volte e mezzo quello del resto della popolazione, a parità di età.

“Tali dati devono essere compresi e contestualizzati”, chiarisce Aiace Rusciano, invitando a evitare allarmismi. “Il primo passo è quello di smettere di guardare al calciatore solo in termini di muscoli. Se è vero che l’asset principale per un Club è la salute degli atleti, che determina il loro rendimento, è vero anche che tutto ciò dipende in gran parte dal cervello. È la macchina neurocognitiva, il cervello, a permettere al calciatore di esprimere il suo potenziale sotto forma di azioni, goal, parate e assist, realizzati nell’arco di pochi secondi anche in condizioni di enorme tensione”.

La concussione cerebrale è ben nota alla medicina dello sport, che ha codificato almeno quattro processi meccanici scatenanti. Nonostante queste precise linee guida, però, si riscontrano ancora difficoltà a riconoscere tale fenomeno e inquadrarlo correttamente. Un recente studio scientifico condotto su 650 giocatori ha svelato che il 10% del campione aveva subito una concussione nel corso dell’anno precedente, ma il 62% degli infortuni non era stato considerato come “serio” e quindi riferito a chi di competenza. Quando invece ciò accade, di solito gli atleti si rivolgono al coach (38,9%), al fisioterapista (22,2%) e ai genitori (22,2%): solo il 5,6% interpella un medico. Nei settori giovanili, però, il 38% degli allenatori ha affermato di non saper riconoscere i sintomi da concussione.

“Infine entra in gioco il tema del ritorno in campo”, continua Rusciano. “Il 92% dei medici dà il via libera affidandosi soltanto all’esame clinico e ai sintomi riportati dall’atleta: solo il 16,7% usa i test cognitivi e l’8,3% le scale di valutazione, mentre il balance test risulta pressoché sconosciuto”.

Affidarsi all’auto-percezione però non è certo la strada più sicura, considerato che il 35% degli atleti non riporta alcun sintomo in presenza di deficit neurocognitivo (Broglio et al., 2007) e disfunzioni metaboliche (Vagnozzi et al., 2008). Meritano un capitolo a parte, infine, le pressioni che gli staff medici subiscono da parte degli allenatori (le riferisce il 33,3% degli intervistati) o degli stessi atleti (16,7%), smaniosi di poter nuovamente contare sulla squadra al completo.

In ottica di prevenzione si può agire su due fronti, propone Rusciano: da un lato tutelare i più giovani, magari prendendo spunto dal divieto di colpi di testa introdotto in Scozia; parallelamente, lavorare con adeguate strutture interne al Club, che integriamo i dati medico scientifici, atletici e prestativi, coinvolgendo e integrandoli in un database del club, oltre alla formazione di atleti, staff tecnici e staff medici, con la collaborazione degli organi sportivi internazionali.

“Per fortuna, nei nostri campionati di Serie A, B e C l’attenzione è sempre più alta. In caso di sospetta concussione, la Federazione Medico-Sportiva prevede l’uscita immediata dal campo, seguita da una visita medica ed eventualmente da una risonanza con metaboliti. Non sempre, però, si ricorre alla valutazione neuro cognitiva per l’alta prestazione. Quest’ultima invece risulta indispensabile per verificare che i tempi di reazione attentiva, pianificazione, controllo e ragionamento siano ai livelli di eccellenza richiesti per i top atleti”.

Presto potremmo assistere a importanti sviluppi. La UEFA ha ufficialmente chiesto alla FIFA di affrontare questo argomento in modo approfondito durante la prossima riunione IFAB; una richiesta che nel 2019 è stata accolta. “In attesa di queste evoluzioni, auspico che i Club di Serie A prendano atto dei richiami ricevuti dalla UEFA e facciano di più per preservare la salute cognitiva degli atleti”, conclude Rusciano.