La Pasqua di Pompeo, una narrazione di Mario Narducci

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mario narducci

A Pasqua Pompeo appariva emaciato come un anacoreta della Tebaide. Una canna nel deserto come Giovanni Battista, anche se non vestiva di pelli mai conciate. Un Simone Stilita consumato da penitenze e digiuni sopra una colonna del deserto, dove trascorse gli ultimi anni di vita, standosene solitario al cospetto di Dio.

Quando sopraggiungeva la Quaresima, Pompeo abbandonava ogni cosa che gli si era appiccicata addosso e che gli era entrata nel cuore tutto il resto dell’anno, e si poneva in piena nudità dell’anima al cospetto del suo Signore, come un bambino vivace che dopo i giochi di strada ritorna a casa e si abbandona tra le braccia della madre che lo rimette a nuovo.

Era un bell’uomo, Pompeo. Alto, portamento nobile, capelli neri alla mascagna tenuti incollati da una mano generosa di brillantina, parola affabile e faconda, con tonalità accortamente variate tra il suadente e il brillante, tanto quanto bastava ad assicurargli l’ammirazione di una vasta platea femminile. Del resto lui non era insensibile al loro fascino, che usò nella prima giovinezza, per godere di una vita che, per altri versi, non sempre gli si era mostrata generosa.

Era diventato una sorta di gigolò. Erano sue le sale da ballo più in voga e i tabarin, dove si concedeva nelle danze del momento alle signore-bene. Ampi giri di valzer, tanghi appassionati, sognanti swing, frenetici charleston. Luci sparate, penombre, séparée, sassofoni vibranti di passione. Anche da adulto, pur se diventato altro da quel che era stato, Pompeo si apriva a un lieve, passeggero sorriso, mentre i piedi tentavano inconsciamente gli antichi ritmi che lo avevano reso famoso.

Ma accadde che quel mondo non gli bastasse più. Avvertì il bisogno di altra aria, di altre avventure. Sentiva che il suo cuore non era fatto per una vita ordinaria, forse anche brillante, ma cadenzata da una noiosa ripetitività. Volle mutarla allora radicalmente e si ritrovò tra le fila della Legione Straniera in un Forte d’Africa, compagno di ergastolani e gente della peggiore specie che aveva scelto, spesso costretta, l’avventura pur di sfuggire a precarietà e condanne maggiori.

L’entusiasmo degli inizi se lo portò dietro per tutta la vita, tatuato su un polso: due mani che si stringono e la linea del sole con tanto di raggi, per sfondo. Un marchio che gli ricordava quel che era stato e quel che voleva essere, dopo una fuga rocambolesca che tra mille pericoli e con il pensiero alla madre in pena, lo riportò a Urbino, capoluogo del Montefeltro, dove tutto parlava di Raffaello e del Duca Federico e poi di Carlo Bo e della sua Università, e dove trovò finalmente quiete e lavoro come bidello in una scuola media.

Non disse mai come gli accadde di ritrovarsi in ginocchio, un giorno, nel confessionale di Padre Pio, a San Giovanni Rotondo. Disse però che quando si alzò, il gigolò e il legionario d’Africa erano spariti per sempre, per lasciare il posto all’uomo pietoso e di fede, che prese a frequentare gli ospedali per aiutare i bisognosi, e la Chiesa dove si recava ogni giorno per le pratiche di pietà, prolungate a casa in una stanzetta adibita a cappella, con tanto di inginocchiatoio (che un affezionato nipote mi regalò e che tengo come reliquia) e quadri devoti dipinti egregiamente da lui stesso. Non per questo aveva perduto amicizie e carattere allegro, che sovente lo portavano in allegria davanti a una tavola imbandita, arricchita da copiose bevute che lui non disdegnava.

Di quelle tavole presi a far parte anch’io, che di Pompeo avevo più di vent’anni in meno e che lo seguivo nelle opere in favore degli anziani dell’ospizio, organizzate dalla “Società del Soldo”. Pompeo era diventato un uomo dalla fede solida. Quando pregava diventava estraneo al resto del mondo. Mi scopro anche a sorridere se penso che qualche volta facesse anche miracoli piccoli piccoli, come quell’estate che ce ne andammo due giorni nel convento dei Cappuccini di Urbania, quando passeggiando lungo il viale che conduceva all’edicola della Madonna, zittì uno sciame d’api che ci ronzava intorno e che come d’incanto sparì.

Al sopraggiungere della Quaresima egli sembrava ritirarsi in un suo personale deserto. Si obbligava a un digiuno di quaranta giorni e non toccava più né carne né vino. Era inflessibile. Ritirato in casa vestiva il saio bigio di terziario conventuale che si era fatto confezionare su misura, con tanto di cappuccio e cordiglio ai fianchi. Una volta che mi invitò, si mostrò con quell’abito, e sembrava solenne come un predicatore antico in atto di pronunciare quaresimali dal pulpito.

Era un Venerdì Santo quando, scarnito dal digiuno, passò per Valbona davanti alla cantina privata di mio suocero che travasava il vino in bottiglie. Si offerse di aiutarlo. Era primo pomeriggio. Urbino respirava primavera in un cielo tepido e senza nuvole. Respinse per tutto il tempo ogni invito a gustarne almeno un goccio, non fosse altro per darne un giudizio. E quando al tramonto ebbero terminato il travaso, mi confessò che quella era stata la sua vera Quaresima, perché mai gli era costato così tanto stare così vicino al vino, farselo scorrere tra le mani, avvertirne l’aroma, senza toccarlo.

Ero tornato all’Aquila con la famiglia, quando un giorno mi giunse l’addolorante notizia della sua scomparsa. Mi dissero che s’era fatto seppellire vestito di bigello, come il Beato Pelingotto nell’urna di una Cappella a San Francesco. E mi pare di vederlo, ogni volta che vado a Urbino e mi soffermo davanti al Beato. E mi rivedo, terminata la Quaresima, a mangiare con lui e la mia famiglia una “crescia sfoglia” o “sal formag” a un tavolo d’osteria, con tanto di vino e gassosa per i bambini, che ancora oggi, diventati adulti, ad ogni Quaresima mi chiedono sorridendo: “papà, ti ricordi Pompeo”?

A cura di Mario Narducci