Storia di Federico, malato di Aids: l’intervista

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Storia di Federico, malato di Aids: l'intervistaPaura e difficoltà, pregiudizi e discriminazioni, ma anche amore e forza interiore di un ragazzo reggiano che combatte con il terribile virus HIV

PAVIA – Ringrazio il professor T. dell’ospedale San Matteo di Pavia, che mi ha permesso di parlare con Federico, un ragazzo reggiano con l’Aids nel sangue.

Da dove cominciamo?

“Dalla fine”.

Federico, nemmeno vent’anni, quasi sorride in questa prima risposta. É biondo, pallido, ma ha due occhi scuri, che ti penetrano come due spade. Ha una maglietta blu, la schiena è poggiata su tre cuscini. Ma lui tende a scivolare sotto le lenzuola.

Da quanto sei in questo letto?

“Dovrebbe essere più d’un anno. Appena sono arrivato ho cominciato a scrivere un diario, ogni giorno. Poi ho smesso perché m’affatico anche a scrivere. E allora non conto più i giorni. Lo chiedo ogni tanto all’infermiera, e lei mi prende in giro, dice che ho troppa voglia d’uscire di qua. Di tornare a Reggio”.

Ma le forze ti torneranno.

“Non fare anche tu come i medici, che mi raccontano d’una guarigione miracolosa, che arriverà da un giorno all’altro. Mi sento come una caffettiera che perde calore e caffè. Sono sempre più vuoto e più freddo. Sono io il mio medico. Sono io che posso dirti quando smetterò di respirare. E anche con precisione”.

Guarda che dovrebbero arriveranno nuove cure dall’estero

“Non fare il giornalista, qui non serve. Sono mesi che mi portano giornali con notizie che arrivano dall’estero. C’è una speranza dalla Germania, una dall’America. No, non ci credo più. C’è scritto anche che l’Aids sta moltiplicandosi, in tutto il mondo, ma ormai la gente sana legge quelle notizie con indifferenza. Anch’io, quando ero sano, non mi fermavo a leggere di malattie incurabili, di medicinali miracolosi. Pensavo a correre, non mi fermavo a guardare in faccia a nessuno, fino a quelle maledette siringhe sul Crostolo. Da quella notte mi sono ammazzato tutte le notti. Stai parlando con quello che resta di me”.

Resta molto, resta la tua forza interiore

“Quella ce l’ho, è vero. Altrimenti strapperei tutte le flebo dalle mie braccia, comincerei ad urlare, e finire il fiato fino alla morte. Sto zitto, e resisto. Non so chi dia da mangiare alla mia forza interiore. Ma qualcuno la tiene in vita. Forse sono le preghiere di mia madre, o i pianti di mio padre, o le lettere che mi scrivono i miei fratelli. Il cassetto del comodino è pieno delle loro lettere. Mi mandano anche cartoline, da posti con il sole e con la luna. Riescono a farmi viaggiare la testa. Io resto qua con la flebo nel braccio, ma la testa è lontana…tra le nuvole dei loro aerei”.

E i tuoi amici?

“Io li capisco, hanno paura di mettere piede qua. Qualcuno mi telefona, ma nessuno viene a darmi una carezza. Hanno paura d’attaccarsi la malattia. Io invece avrei una grande voglia d’abbracciarli, uno per uno. Di baciarli. Di stringere le loro mani. Ecco, da quando ho questa maledizione nel sangue, sento il bisogno di dare amore, più che riceverne. Dovrebbe essere il contrario, perché non ho più forze. Invece vorrei dare, e ancora dare. É strano, vero?”.

Se vuoi, puoi stringere la mia mano. Anche se ci conosciamo da mezz’ora

“Guarda che mezz’ora nelle mie condizioni, può essere un’eternità”.

Hai provato a pregare?

“Ogni tanto capita qui un frate. É così vecchio. Chissà cosa si prova a vivere quasi un secolo, come lui. Mi dà un senso di stanchezza guardare la sua faccia. Ha delle rughe profonde. E allora quando c’è lui, qualche preghiera la diciamo insieme. Però non mi basta per rimanere calmo. Perché penso che quando io non ce la farò più, ci saranno altri in questo letto con la malattia maledetta. E chissà quando questa catena si fermerà”.

Prova a pregare anche da solo

“Dovrei pregare per quelli che verranno dopo di me. Pregare perché una mattina, sul giornale, arrivi la notizia della vittoria sull’Aids. Sicuramente sarà il padre d’un malato di Aids a trovare la medicina giusta. Solo un grande amore può farti arrivare al miracolo”.

Lo sai che quando pronunci la parola amore, ti viene una specie di sorriso?

“Non sei la prima persona che me lo dice. É una specie di riflesso condizionato. Non sono mai stato così innamorato degli altri e della vita. Anche la mia fidanzata viene a trovarmi, sai? E lei lo vorrebbe un figlio da me. Solo per ricordare, perché lui mi somiglierebbe un po’. Metterei al mondo un malato come. Non posso. Ma ne avrei tanta voglia. Adesso lasciami solo, passami l’auricolare del walkman”.

Che musica hai inciso?

“Un nastro pazzesco, me l’ha fatto la mia fidanzata, proprio con amore. Ci sono musiche indiana, c’è la voce di Gandhi, c’è la voce di Madre Teresa e del Papa. Poi c’è un rap di Jovanotti, e tante altre musiche che non so dove le abbia prese. Una grande confusione che mi fa pensare senza pensare. Ma pensare in avanti, forse talmente in avanti da andare al di là della morte. Ciao”.