Visita di Papa Francesco negli Emirati Arabi, note e riflessioni

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papa francesco sheikh ahmed al tayeb

Il termine “storico”, nelle narrazioni inerenti l’epoca in cui viviamo, va molto di moda. Così tanto che se ne sta perdendo il senso, come quelle monete tanto a lungo usate da aver perso traccia delle figure sopra di esse impresse. Ma la visita di Papa Francesco agli Emirati Arabi Uniti, la celebrazione della Messa e il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” firmato insieme alla massima autorità dell’Islam sunnita sono avvenimenti storici nel senso più pieno della parola. Sono storici non solo perché per la prima volta un Papa ha celebrato Messa nella penisola Arabica (culla dell’Islam) ma perché con il loro fortissimo valore simbolico, religioso e concreto sono destinati a segnare profondamente il futuro del Cristianesimo, dell’Islamismo, del loro rapporto e del rapporto tra loro e il mondo.

C’è in questa visita un senso simbolico che si riallaccia alla figura di Francesco d’Assisi. Il Santo, che afferma essere il cristiano “armato” solo della sua “fede umile e del suo amore concreto”, è il modello a cui si richiama il Papa nelle questioni dei rapporti tra religioni. Vi si richiama inoltre in terra musulmana additando il modello francescano da un lato come esempio dell’incontro con fedi diverse e dall’altro come alternativa a chi, nel 1219 come oggi, si fa avanti verso l’altro armato di tutto punto per imporsi con la violenza. La storia viene valorizzata come fonte della tolleranza e l’idea di Crociata respinta perché basata sulla forza e non sull’amore.

Il valore simbolico di San Francesco è quindi essenzialmente religioso e la grande Messa a cui hanno partecipato 45mila persone dentro lo stadio, mentre altre 140mila erano presenti fuori, ne è stato il vertice. Qualcosa come circa 100 nazionalità diverse erano rappresentate e a nessuno può sfuggire il profondo significato di celebrare la Messa in questa forma e in questi luoghi e la Messa, di nuovo, è anche ricordo, memoria di un Sacrificio. Né va sottovalutata la successiva visita alla Cattedrale cattolica di Abu Dhabi, una parrocchia di 100mila fedeli (!) in cui varie lingue, occidentali e asiatiche, s’intrecciano in una polifonia armonicamente unificata dal Cristianesimo.

Un’armonia sempre più necessaria nell’epoca della globalizzazione e qui, concretamente, s’inserisce la “Dichiarazione” firmata insieme al Grande Imam di al-Azhar, Aḥmad al-Tayyib. Il nucleo è basato sull’affermazione che “Dio non vuole che il suo nome venga usato per terrorizzare la gente”, laddove il secondo verbo indica immediatamente a chi è indirizzata l’esortazione. Sfruttare il nome di Dio per uccidere non è un’azione religiosa, ma esecrabile perché “Dio ha proibito di uccidere”. Dagli Emirati Arabi il documento firmato parla in difesa “dei poveri, degli orfani e delle vedove, dei rifugiati ed esiliati, di tutte le vittime delle guerre e delle persecuzioni” e invoca l’intervento dei leaders politici perché si ponga fine “alle guerre, ai conflitti, al degrado e al declino culturale e morale”.

É questo un aspetto che approfondisce un aspetto importante e tradizionale nell’agire concreto della Chiesa nel mondo globalizzato. Non si può non notare che, dopo Panama e dopo l’accordo con la Repubblica Popolare Cinese, la Chiesa conferma e sviluppa quel ruolo ecumenico che dall’inizio la caratterizza. Il modello francescano, la Messa, la Dichiarazione (estremamente coraggiosa anche da parte musulmana) ribadiscono con forza in chiave non solo europea e/o occidentale il ruolo della Chiesa. La storicità di questa visita risiede nel fatto che al di là dei confini nazionali, al di là del dominio del denaro Papa Francesco ha aperto, attraverso la Fonte del Cristianesimo, nuove vie nel nuovo mondo della globalizzazione. La speranza è che si abbia la forza di percorrerle.

A cura di Nicola F. Pomponio