L’Abruzzo terra di uomini e greggi

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transumanza

Il racconto di mio nonno Gaetano lungo le vie del tratturo

Resa celebre nella poesia “Pastori” di Gabriele D’annunzio, la transumanza seppur non più praticata, conserva ancora oggi la sua importanza dal punto di vista storico e sicuramente antropologico. Molti dei paesi, in particolar modo quelli dell’Abruzzo interno con l’arrivo dell’autunno e quindi del freddo dovevano lasciare la propria terra a corredo del proprio gregge e recarsi presso la Puglia, terra sicuramente più calda e rigorosa, una pratica quella della transumanza che segnava non solo i pastori che dovevano viaggiare a lungo e quindi stare lontano dalla propria casa e dalla propria famiglia ma anche le loro mogli, che spesso dovevano restare sole ed occuparsi della campagna e della casa.

Anche Campo di Giove, un piccolo paese che sorge incastonato tra boschi e faggete alle falde del massiccio montuoso della Majella, fin dalla notte dei tempi fu terra di pastori transumanti. Fondava infatti la sua economia sulla pastorizia, tanto da dare i natali a importanti realtà casearie italiane. Grazie alla presenza di molti anziani che in paese custodiscono la memoria storica di uno dei riti più affascinanti e antichi come quello delle greggi transumanti si è potuto recuperare attraverso fonti orali quelle che erano le vicissitudini legate alla transumanza.

A molti in paese hanno vissuto l’esperienza di esodo durante i mesi invernali accanto alle greggi.

La  testimonianza di mio nonno Gaetano di 92 anni

“Partivamo dal paese a ridosso delle festività patronali –racconta-, che cadono proprio il 20 settembre, e attraversavamo le coste abruzzesi fino ad arrivare in un piccolo paese della Puglia e cioè Poggio imperiale, conosciuto nel dialetto locale come Tarranòve cioè Terra nuova, a testimonianza della sua fondazione relativamente recente che si attesta intorno al 1759. Facevamo ritorno il 13 giugno quando ormai la stagione era calda anche sui pascoli in montagna”.

La vita lungo il pascolo era molto frugale

un ombrello da pastore, a falda larga, riparava dalle intemperie e un po’ di pancotto condito con verdure, guanciale e formaggio doveva fare da pranzo e da cena. Oltre che nella custodia del gregge, il pastore occupava il suo tempo fantasticando, spesso implorando la grazia divina per scongiurare le sventure o magari intagliando piccoli pezzi di legno o facendo iscrizioni sulla pietra. Un elemento molto importante è quello della fede, a testimonianza di ciò infatti molte sono le piccole chiese che sono sorte lungo il cammino del tratturo.

“Stavamo lontani per molto tempo – dice-, sapevamo di tornare a casa ma la nostalgia a volte è canaglia e sentivamo spesso la mancanza della nostra terra”.

“Come molti altri sono partito a 13 anni, ero un bambino e ai bambini venivano affidati molti dei compiti all’interno dello stazzo”.

Partire era molto dura perché si assumeva la consapevolezza della fatica e spesso anche della solitudine e del distacco dalla propria terra natia, seppur per brevi periodi. Allo stesso tempo però era uno spettacolo bellissimo perché i pascoli si coloravano di greggi, la miseria andava a braccetto con la bellezza della natura. Oggi, forse, l’impegno delle nuove generazioni non sta solo nel guardare al futuro ma anche nel custodire il passato.