Roma nel 2018 è lo sfondo implacabile di tre morti in vasca, tre donne legate da un destino opaco e da un lavoro che consuma l’anima. Beatrice Fiaschi racconta tutto questo con precisione chirurgica e sensibilità quasi medianica, intrecciando la trama di “La Vasca” con le sue ossessioni narrative: la psiche che vacilla, l’amore come enigma, il crimine come rivelazione. In questa intervista, ci accompagna nei retroscena emotivi e simbolici di un romanzo che è molto più di un noir: è un rito di passaggio nell’acqua nera della coscienza.
È un romanzo anche di fiducia, di quel senso di “affidarsi”… sentimenti che nella narrazione poi subiscono mutazioni. In generale sono tratti anche personali di vita vissuta? Sono scuse buone per buttarci dentro un poco anche se stessi?
Hai ragione, nel romanzo “La Vasca” il tema dell’affidarsi – a sé stessi, agli altri, alla vita – diventa sempre più centrale man mano che i personaggi percorrono il loro arco di trasformazione. Sono personaggi particolarmente traumatizzati e feriti e che hanno elaborato molte strategie di sopravvivenza, spesso tossiche, per poter andare avanti nella vita fin quando non è arrivato un punto in cui queste non sono più bastate. Ecco, a quel punto l’unica strada possibile è quella del perdono di sé stessi per abbracciare una vita scevra dai sensi di colpa. Secondo me questo è un tema che ci unisce tutti, quindi l’ho scelto perché nevralgico e universale. Personalmente, sono passata e sto passando per tutto questo percorso di perdono e rinnovata cura di me stessa: metterlo nero su bianco durante la scrittura mi aiuta sempre a capire meglio le mie emozioni.
Il titolo “La Vasca” ha un valore simbolico molto forte, legato al luogo del crimine, ma forse anche alla dimensione della purificazione, dell’intimità o della morte. Da dove prendi ispirazione? Quale altra letteratura c’è dietro questa simbologia?
Sì, l’immagine della Vasca insanguinata mi ha accompagnata per tutta la stesura ispirandomi ben oltre la scena del crimine. “La Vasca” è anche quel recipiente crepato dal quale fuoriesce l’acqua torbida del nostro inconscio più profondo nel momento in cui il trauma ti testa e il sommerso rischia di dominarti se non metti la mano in quell’acqua e cerchi di scavare per evitare di consegnarsi alla completa stasi del sopravvivere. Quindi sì, c’è molto altro dietro a questa vasca, c’è tutta l’opera di Freud e Jung, la teoria degli archetipi e la simbologia degli elementi.
Sei attivamente coinvolta in progetti sociali e con realtà psichiatriche. Tutto questo quanto ha contribuito alla scrittura del romanzo?
Molto, anzi, è stato l’innesco. Conoscendo a fondo la realtà psichiatrica di comunità per me è stato sempre più fondamentale inserirla nel mio impianto narrativo per farla conoscere a sempre più persone anche nella sua ricchezza e nel patrimonio d’amore infinito che si riesce a intravedere oltre la malattia, se si allena lo sguardo e si va oltre. La descrizione di contesti disagiati e socialmente instabili è un’altra caratteristica della mia narrativa, uno di quegli ingredienti che vanno a integrarsi bene col tema e che mi permettono anche di informare il lettore su qualcosa di attuale e spesso non molto al centro delle cronache.
Il confine tra legalità e giustizia è costantemente messo in discussione. Altra scusa buona per riflettere fattivamente su dilemmi etici e chiedere al pubblico un confronto? Ne sei venuta a capo?
Il confronto col pubblico per me è sempre uno degli obiettivi principali del mio lavoro: la buona narrativa deve cercare di offrire nuovi spunti per riflettere, oltre che il semplice intrattenimento. “La Vasca” tratta di violenza, ascolto, omicidio, suicidio, indifferenza, malattia mentale, amore e morte cercando di andare oltre la dicotomia “giusto o sbagliato” e focalizzando invece da cosa è composta intimamente ognuna di queste parole. Per cui il dibattito che ha seguito il romanzo è stato oltre l’etica, fortemente onnicomprensivo e multidisciplinare, quindi sì, direi che è andata meglio del previsto!