Milano, una vita in prima linea da volontario

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Milano, una vita in prima linea da volontarioMILANO – Alessandro, volontario milanese, racconta la sua esperienza al servizio del prossimo. Di seguito l’intervista.

Quando ha deciso di fare del bene agli altri?
“Quando ho capito che non mi bastavo. Facevo l’università, ma il voto a un esame non di dava soddisfazione. Mi sentivo lontano dalla realtà. I libri, i professori, le aule universitarie: tutto così freddo, così ripetitivo con me stesso. Gli altri no, ti sorprendono. Hanno bisogno di te, ma non te lo dicono. Tutti conservano la dignità”.

E tu non hai bisogno degli altri?
“Certo, ma cerco d’aiutarmi da solo. Non faccio del bene per chiedere in cambio qualcosa, come del denaro, o un riconoscimento: nemmeno un grazie m’interessa. Fare del bene è un messaggio che lanci chissà dove. Non aspetti nessuna risposta”.

In che cosa consistono i tuoi aiuti?
“Faccio il barelliere sulle ambulanze. Arrivo nei casi più disperati. Ragazzi con la testa fracassata in motorino. Vecchi paralizzati da un ictus. Gente che piange, amici che si disperano. M’impressionano ogni volta gli occhi dei malati, di chi ha subito un incidente. Ti guardano, ti chiedono qualcosa. Ma non soltanto aiuto. Chiedono qualcosa che non riesco a capire”.

Forse ti chiedono d’aiutarli a vivere, ti chiedono soltanto di salvarli.
“No, non solo. Mi chiedono qualcosa di più. Sono pronti a morire. E forse mi chiedono d’aiutarli a morire bene. Per questo, salvarli diventa più facile, più semplice. E’ quando ti muoiono tra le braccia, mentre gli metti la maschera per l’ossigeno: è in quei momenti che devi dare tutto in un istante. Magari con un sorriso, o con una stretta di mano o con una

carezza d’infinito amore”.

Che si prova a vedere morire un uomo, una donna, un bambino?
“Un senso di vuoto per te che rimani. Loro volano via, t’accorgi che s’alzano verso l’alto, e tu rimani aggrappato a un corpo che immediatamente si fa freddo, inutile, e ti viene quasi voglia di volare via con loro”.

Hai fede?
“Mi è venuta col tempo, più vedendo morire che vedendo sopravvivere”.

Fammi un nome, raccontami un ricordo.
“Filippo, con la testa a pezzi, finito contro un marciapiede, con il motorino che non si spegneva mai. Quando siamo arrivati con l’ambulanza, il motorino era ancora acceso, e lui perdeva sangue da tutta la testa. Credevo che sarebbe morto in pochi istanti. E invece continuava ad aprire e chiudere la bocca. Come volesse dire qualcosa, chiamare qualcuno. L’abbiamo portato al Policlinico. E’ stata una corsa folle. L’abbiamo lasciato nelle mani de dottori del pronto soccorso, e lui ancora apriva e chiudeva la bocca. Dentro di me, gli ho detto addio, mi sembrava d’impazzire. Per me lui era uno dei tanti amici, un mio parente. Forse io, che vado in motorino e potevo finire così: aprendo e chiudendo la bocca, urlando senza voce”.

E si è salvato?
“L’ho cercato tanto Filippo. Per mesi. Non avevo il coraggio per chiedere alla segreteria dell’ospedale sue notizie. Nella mente fissavo quell’urlo senza voce, quel lago di sangue, quel motorino che non si spegneva mai. Eppure sentivo che Filippo era vivo. Non poteva finire così quella corsa disperata verso il Policlinico… E’ stato quando sono andato a votare, alle elezioni amministrative. Dovevo ritirare la scheda elettorale, che avevo smarrito. Seduto di spalle, di fronte a me, aspettando d’essere chiamato dal messo comunale, c’era un ragazzo senza capelli. Il cranio era tutta una cicatrice. Una partiva dalla nuca, sfiorava l’orecchio sinistro, e poi proseguiva dritta oltre la fronte. Non vedevo gli occhi di quel ragazzo. Accanto a lui c’era un uomo di mezza età, forse suo padre. Sarei scoppiato a piangere se quel ragazzo fosse stato Filippo. Dovevo solo pronunciare quel nome, provare a chiamarlo. Poi qualcosa devo aver detto. Comunque avevo talmente voglia di parlare, che un messaggio sono riuscito a mandarlo in quel cranio cicatrizzato. E il ragazzo si è voltato lentamente verso di me. Era Filippo. Ma non mi riconosceva. Non sapeva che mi ero macchiato le mani del suo sangue, che avevo ascoltato quell’urlo senza voce, quell’aprire e chiudere la bocca in cerca d’ossigeno e di vita. Gli ho accennato un sorriso. E mi ha risposto: anche lui con un sorriso che non dimenticherò mai. La voce del messo comunale mi ha detto che era proprio Filippo. Lo chiamavano per ritirare la scheda elettorale. Lui s’è alzato, con le sue gambe, e con la testa fracassata è andato a ritirare la scheda. Non finirò mai di ringraziare il destino e Dio che mi ha fatto rivedere Filippo. Che mi ha fatto ascoltare la voce del messo comunale: la certezza che quello fosse proprio Filippo, quel ragazzo finito sull’asfalto con la testa insanguinata. Ecco, mentre lui camminava lentamente, senza l’aiuto del padre, di nessuno, autonomo, solo allora ho capito che non smetterò mai di fare il volontario”.