Massimo Sorrentino pubblica “Corde a colori”. Un variegato viaggio nel mondo della chitarra e dei colori

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massimo sorrentinoQuesta settimana è in uscita su CD e su tutte le principali piattaforme digitali del mondo, “Corde a colori”, con la storica etichetta toscana RadiciMusic Records. Un concept album dedicato ai colori, diviso in 4 parti, con l’obiettivo di esplorare le potenzialità del mondo chitarristico, con impronte jazz molto contaminate.

Questo è il tuo terzo album da leader: cosa rappresenta questo nuovo tassello discografico?

Come si suol dire in questi casi, si tende sempre un po’ a fare un bilancio, quindi a voler cercare una prova di maturità artistica. Ma in realtà credo che questo atteggiamento debba servire solo a dare un grande stimolo per proseguire il proprio percorso artistico, così da poter pensare subito al futuro e al prossimo brano da comporre o da arrangiare. In fondo si è sempre mossi dal voler raggiungere una cima, per poi voler scendere e scalare subito una montagna più alta. 

Cosa ti ha spinto a creare i brani di “Corde a colori”?

La voglia di sperimentare diversamente la mia composizione e il mio modo di improvvisare.
Nei precedenti miei album avevo un approccio più jazzistico: ossia si parte dalla composizione di un tema e poi si dà luogo agli assoli sulla struttura del brano. Questa volta ho voluto invertire un po’ questa tendenza. Quasi tutti i principali temi delle ‘song’ sono nati improvvisando, imponendomi di non tornare troppo sulle idee musicali che man mano registravo. Ciò ha dato vita a delle melodie molto vaste, con vari cambi di direzione. Inoltre sugli assoli spesso ho deciso di cambiare ulteriormente l’impianto armonico. Direi che la musica di questo album è frutto di lunghi assoli, evitando scientemente strutture precostituite. 

Come nasce l’idea di dividere il disco in 4 parti, ispirato a 4 colori? 

Nell’impeto di fare una musica che potesse risultare più variegata possibile, mi sono concesso almeno una schematizzazione anche un po’ metaforica e filosofica: identificando e abbinando un colore ad ogni ipotetico mondo chitarristico. Quindi si inizia con il ‘bianco’ che si ispira alla purezza del suono acustico. Il ‘verde’ rappresenta la coesione di soli tre strumenti principali: chitarra, contrabbasso e pianoforte. Con il ‘rosso’ ho voluto immergere la chitarra jazz, ed elettrica, in un grande organico sinfonico, che rimanda un po’ all’aspetto più teatrale e cinematografico della musica. Nel finale, rappresentato dal colore ‘blu’, c’è tutta la voglia di sperimentazione sonora con le mie chitarre e la mia synth guitar, attraverso suoni rarefatti e futuristici avvolti da ritmiche/loop acid-jazz, afrobeat, rock…

Con tutti questi elementi, anche extramusicali, come definiresti questo album? 

Forse è un album di musica strumentale in cui il jazz cerca le influenze di vari stili. D’altra parte uno dei miei obiettivi era di suonare quante più chitarre possibili e sperimentare all’interno di esse più linguaggi musicali. Il risultato, un pò paradossale, è che mi risulta davvero difficile usare un termine per indicare questa musica, ma proprio questo è stato l’aspetto che più mi ha incuriosito e piaciuto registrando il disco. 

Parlaci dei due featuring, Daniele Sorrento e Andrea Rea, che sono presenti nel disco.

Loro sono due jazzisti apprezzati in Italia e all’estero. Mio fratello Daniele ha avuto il triplice ruolo di bassista, contrabbassista e curatore dei missaggi/mastering. Il suo talento è stato fondamentale per la riuscita di tutto il progetto. Essendo un jazzista navigato, si è immerso naturalmente con l’idea di creare un disco molto istintivo e vasto. Basti pensare che le sue esecuzioni, sempre ispirate e precise, sono state registrate tutte alla prima take. Con Andrea Rea mi lega una collaborazione ed un’amicizia ormai ventennale. È un eccellente pianista. Ha impreziosito con la sua sensibilità tre mie composizioni. 

Nell’album c’è anche una versione di “Blackbird” di Lennon-McCartney. Come mai questa scelta?

Reputo Paul McCartney il più grande compositore della musica moderna. Sono un suo grande fan sin da bambino. Conosco tutto il suo repertorio e in particolare “Blackbird” ha rappresentato per me, e credo per i chitarristi in generale, un passaggio obbligato. È un brano che per l’epoca fu rivoluzionario per il modo in cui McCartney creò la parte di chitarra, usando un bellissimo accompagnamento in fingerstyle. Negli anni poi tanti jazzisti si sono cimentati con questo brano. Però da ascoltatore/ appassionato, ho notato che sono davvero poche le versioni strumentali prettamente per chitarra. Così nel mio piccolo non mi sono voluto lasciar sfuggire questa occasione di eseguirla in questo nuovo lavoro discografico.

Il mondo della chitarra è ancora così vivo come ai tempi dei Beatles o ha subito una metamorfosi, lasciando il passo ad altri strumenti o all’elettronica? 

L’uso dell’elettronica ha soppiantato un po’ l’uso di tutti gli strumenti. Purtroppo credo che da decenni la chitarra viva un periodo di crisi. Nel senso che dopo periodi di grandi evoluzioni tecniche ed espressive, è come se si fosse adagiata, o sia stata relegata, in uno spazio sempre uguale, ripetitivo, soprattutto nell’ambito del rock o del pop. Si prediligono quasi sempre degli ‘ipertecnicismi’, che spesso risultano solo degli esercizi di stile fine a loro stessi: risultando il più delle volte una forma di clonazione di ciò che fu già raggiunto dai grandi del passato. Da a Hendrix a Clapton, passando per Van Halen fino ad arrivare a Steve Vai o Nuno Bettencourt ( il mio guitar-hero preferito ). Ecco, dopo questi ultimi, credo che il ‘chitarrismo’ non abbia raggiunto importanti e nuovi elementi artistici e tecnici. Forse nel campo jazzistico esistono ancora dei margini di ricerca espressivi da sperimentare per la chitarra. 

Le parti orchestrali e gli arrangiamenti della terza parte del disco sono molto sontuosi e ricercati. Quanto tempo ci è voluto per arrangiare e registrare questa parte del disco caratterizzata dal colore ‘rosso’?

Anche in questo caso ho adottato un approccio molto istintivo, anche se a primo impatto non sembrerebbe. Tutte le armonizzazioni e le orchestrazioni sono nate quasi al momento, progredendo man mano che registravo, aggiungendo sempre nuove tracce ed idee. Ad esempio le sequenze armoniche di “Gratitudine” sono state registrate direttamente, senza né essere prima pensate, né analizzate. Quindi la risposta è che la parte orchestrale è forse quella che ha necessitato del minor tempo in fase di creazione e registrazione. Tutt’altro discorso invece è quello relativo alla produzione del suono per rendere l’orchestra quanto più reale possibile: in generale ho una cura piuttosto maniacale per la post-produzione. Ho trascorso mesi a riascoltare e a curare il suono di ogni singolo strumento inciso.

Anche in “Whit me” che è il brano più lungo con moltissime parti orchestrali, hai usato lo stesso metodo di creazione?

Si, certo. Nel caso specifico di “Whit me”, ad esempio varie parti di fiati che sono molto predominanti, sono frutto di prime take che ho inciso lasciandomi influenzare dai loop che avevo creato in precedenza, anche un po’ per divertimento. Questa composizione si fonda su un ostinato molto lento, su un tempo dispari, che crea una sorta di atmosfera ipnotica, con linee melodiche orientali. Più in generale credo che proprio i loop ritmici ( che a volte ho creato usando la chitarra come una percussione ), abbiano avuto un ruolo fondamentale, stimolandomi in questo processo creativo così nuovo e sperimentale per me.

La parte finale del disco si apre con “Blu elettrico” che ha varie impennate sonore e ritmiche.

Questa è stata una piccola ‘follia musicale’: ho cercato di inserire in uno stesso brano elementi musicali e strumenti molto distanti tra loro. Ha al suo interno dei banjo, chitarre “metal”, chitarre acustiche, un beat che ammicca alla techno su un tempo in 7/4, il tutto con una chitarra jazz che improvvisa. È stato il brano più divertente da registrare e uno dei quali sono più fiero.

Il singolo “Mi colori” forse si discosta un po’ da tutta questa sperimentazione creativa.

E’ vero. “Mi colori” è l’unica composizione del disco che è stata concepita con i canoni di una classica ballad jazz. Ho deciso che diventasse il ‘singolo’ dell’album perché sentivo l’esigenza di scrivere un brano come se fosse una vera e propria canzone: quindi con un suo messaggio ed un significato, tutto ciò pur non avendo un testo. “Mi colori” è dedicata agli incontri mai avvenuti. Avendo una melodia molto cantabile, con venature malinconiche, mi è venuto naturale darle questa direzione, ispirandomi appunto agli incontri mancati che un po’ tutti hanno vissuto. Incontri che avrebbero potuto cambiarci un percorso personale, o lavorativo, o affettivo. E se questi incontri ancora non sono avvenuti li cerchiamo e li aspettiamo con speranza ma anche con grande entusiasmo.

Come è nata la collaborazione con l’etichetta toscana RadiciMusic? 

Grazie a delle piacevoli conversazioni che ho avuto con Aldo Coppola Neri, l’editore della storica RadiciMusic. Abbiamo riscontrato delle vedute simili sulla cultura e sulla musica nello specifico. Ad esempio la RadiciMusic è una delle poche etichette che crede ancora nella fruizione della musica analogica, quindi con supporto di CD ed LP. Oggetti ai quali anche io non potrei mai rinunciare, sia come musicista che come ascoltatore. Inoltre la RadiciMusic, come suggerisce il nome, ha tra le sue priorità quella di evidenziare con coraggio musiche particolari, di varie provenienze ed etnie: quindi per me è risultato naturale legare questo mio progetto a questa bella e rara realtà editoriale.