L’epidemia di “sindrome da burnout” al tempo del Covid-19: intervista ad Adelia Lucattini

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ROMA – Rischio burnout a scuola sempre più dilagante. Indecisione, scarsa concentrazione, irritabilità. E poi ancora: pessimismo, ansia. Tutti questi possono essere sintomi di burnout, lo stress da lavoro correlato, che in modo crescente colpisce insegnanti, presidi, e più, in generale il personale scolastico, dal DSGA al personale ATA. Ma quali sono le cause? Come poter riconoscerlo in tempo? Come è possibile prevenirlo? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Adelia Lucattini, Psichiatra e Psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psycoanalytical Association.

Cosa si intende per burnout?

Il nome di questa “sindrome” che in medicina significa l’insieme dei sintomi (ciò che il paziente riferisce) e dei segni (ciò che il medico rileva) deriva dall’espressione inglese «to burn out» ovvero «bruciarsi -esaurirsi» come una candela accesa.ma può essere tradotto anche come “scoppiato, esaurito”. Il burnout è uno stato di esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale.

Molti passi importanti sono stati fatti negli ultimi anni riguardo il disagio in ambito lavorativo che in precedenza era considerato una condizione medica, difficilmente diagnosticabile. Infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha riconosciuto ufficialmente e classificato il “burn out” come “sindrome” nell’ICD (La Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati) di cui l’ICD-11 è l’undicesima revisione. Il manuale ICD è stato adottata nel 1990 dall’Assemblea Mondiale della Sanità (WHA o OMS) e è in vigore dal Primo gennaio 1993, si tratta di una classificazione di tutte le malattie esistenti e che orienta la diagnosi e i trattamenti in tutto il mondo, è un punto di riferimento e una base comune d’interpretazione adottata da tutti i paesi del mondo. Certamente non si sostituisce alla diagnosi clinica ma è un modo per poter dialogare tra medici e sistemi sanitari di tutti i paesi. L’Oms definisce il burnout “una sindrome concettualizzata come conseguenza di stress cronico sul posto di lavoro non gestito con successo”.

Quali sono le caratteristiche del burnout secondo l’Oms?

Le tre caratteristiche individuate dall’OMS sono: 1. senso di esaurimento o scarsa energia fisica, psichica o psico-fisica; 2. L’aumento dell’isolamento dal proprio lavoro, aumento della distanza mentale dal proprio lavoro, negatività e cinismo relativi alla propria occupazione e/o ruolo; 3. La ridotta efficacia professionale. Il burnout si riferisce – secondo la classificazione – specificamente ai fenomeni nel contesto occupazionale, lavorativo, e non dovrebbe essere applicato per descrivere esperienze in altri ambiti della vita. È la prima volta che il burnout è stato incluso nell’elenco delle malattie dell’Icd-11 che entrerà in vigore nel gennaio 2022. Questo significa che lo stress da lavoro viene considerato una condizione che può influenzare lo stato di salute e benessere delle persone, per il quale l’OMS ha stabilito anche le direttive per la diagnosi di burnout, ma non quelle per il trattamento e cura.

Quali sono le cause?

È importante adottare una prospettiva più ampia per inquadrare il problema, la società contemporanea globalizzata, impone ritmi di lavoro sempre più frenetici e sempre più focalizzata sulla produttività che viene valutata quantitativamente più che qualitativamente e  spinge così sempre più spesso i lavoratori e le lavoratrici ad avere ritmi di lavoro vertiginosi. Questo fa sì che in molte professioni sia ormai quasi inevitabile che molti individui cadano in “esaurimento da lavoro”.

Il “burnout” è un problema associato all’occupazione  ma anche disoccupazione lavorativa. Questa sindrome condizionata dal luogo di lavoro e soprattutto dalle modalità di lavoro benché non sia una malattia vera e propria, è una seria minaccia per la salute, per il benessere personale e professionale dei lavoratori. All’origine del burnout c’è una condizione di stress cronico mal gestito nei sintomi o non affrontato in modo professionale.

Cosa accade nell’ambiente lavorativo?

È un’ambiente che sottopone il lavoratore, a logorio professionale. In generale non possiamo dire che ci sia un’equazione precisa tra stress lavorativo e ambiente lavorativo, gli elementi sono molteplici, dipendono sia dall’ambiente che dalla reazione agli stress ambientali da parte delle persone. Certamente se lo stress ambientale è prolungato e intenso, molte persone dello stesso ambiente ne saranno affette. Paradossalmente, lo stesso ambiente può essere stressante per un soggetto e motivo di crescita professionale per un altro. È dal rapporto soggettivo tra le caratteristiche individuali e il confronto con l’attività lavorativa che scaturisce o meno una condizione di cosiddetto “distress lavorativo”. Mediamente in qualunque ambiente osservato si rilevano aspetti positivi e negativi. L’interazione del singolo individuo con la specificità dell’ambiente in cui lavora può quindi determinare una risposta più o meno positiva, o negativa, in termini di adattamento. Ogni lavoratore reagisce in maniera diversa ma vi possono essere delle strutture organizzative altamente stressanti, basta pensare ai Pronto Soccorso, alle Terapie Intensive e alla Medicina di Base durante la pandemia. Da sempre è nota la sindrome di burnout nelle professioni sanitarie (medici e infermieri in particolare), negli insegnanti e in persone che lavorano nelle Forze dell’Ordine.

Ci sono elementi specifici nella pandemia?

Prima della pandemia di COVID-19, già erano stati segnalati una percezione di bassa qualità della vita (QoL), con un impatto significativo, non di rado molto rilevante e, a tratti, preoccupante, sulla salute mentale e fisica dei lavoratoti, a causa di vari fattori di stress associati al sovraccarico di lavoro. La pandemia li ha notevolmente aumentati. Nelle professioni sanitarie oltre ai ritmi di lavoro anche il contatto con la morte e il dover affrontare una grave nuova patologia che ha coinvolto per primi i sanitari stessi, nella scuola l’adozione dei mezzi informatici e la didattica a distanza uniti allo sconvolgimento organizzativo degli orari, in generale l’improvviso passaggio a smart-working per milioni di persone, per chi lavora in fabbrica la paura di ammalarsi sul luogo di lavoro, e da non sottovalutare lo spettro della disoccupazione  o del non poter entrare nel mondo del lavoro per tutti i cosiddetti “precari”, “ partite iva”, etc.

Un altro elemento molto gravoso è stata la riduzione al massimo delle interazioni personali, la mancanza di riunioni di debriefing per scaricare la tensione, l’impossibilità di effettuare gruppi Balint per discutere delle difficoltà professionali, la rarefazione o assenza di riunioni di persona. Quindi, non solo una maggiore intensità dei ritmi di lavoro ma cambiamenti repentini dell’organizzazione, delle modalità e dei ritmi del lavoro stesso. La pandemia è un momento particolare ed eccezionale che ha creato le condizioni per cui si sono osservate con maggior frequenza le sindromi di burnout.

Quali sono le ricerche e le statistiche in questo ambito?

Ci sono numerose ricerche iniziate già negli anni Settanta e ampliatesi dagli 2000 in poi.  Per orientare sulle dimensioni attuali del problema, riportiamo un recente sondaggio del 2021 condotto da Indeed un’azienda statunitense che si occupa migliorare i processi di selezione del personale e promuove un ambiente di lavoro collaborativo, ha intervistato 1500 lavoratori di diverse fasce di età, livelli di esperienza e settori, e ha poi confrontato i risultati con i dati di gennaio 2020, appena prima dello scoppio della pandemia di Covid-19. Dalla ricerca è emerso che più della metà (52%) degli intervistati ha rivelato di aver sofferto di burnout in questo ultimo anno, contro il 43% riportato nel precedente studio. La fascia d’età più colpita è quella più giovane: il 59% di millennials e il 58% dei ragazzi della Generazione Z ha dichiarato di aver avuto la sindrome da burnout. Le generazioni precedenti sono state ugualmente colpite: tra i babyboomer, i  nati tra il 1946 e il 1964, c’è stato un aumento del burnout del 7% rispetto ai livelli pre-pandemici (24% nel gennaio 2020). Lavorare da remoto ha avuto un forte impatto, infatti secondo il sondaggio, coloro che lavorano in smart working hanno maggiori probabilità sviluppare burnout nel corso della pandemia rispetto a coloro che lavorano in sede o in presenza. Infine, indipendentemente da sesso, età o tipo di lavoro, l’80% degli intervistati ritiene che la pandemia abbia avuto un impatto significativo sul rapporto tra lavoro e burnout, e di questi  il 67% che afferma che la sindrome da burnout è peggiorata durante la pandemia.

Quali sono le fasi in cui si manifesta il burnout?

Il burnout si manifesta in quattro fasi:

1 . La prima fase che può causare predisposizione al burnout è quella dell'”entusiasmo idealistico” che spinge il soggetto a scegliere un lavoro “come se fosse una missione” sottovalutando le difficoltà oggettive dietro la spinta di una forte idealizzazione o come desiderio di riscatto rispetto a proprie esigenze inconsce non ben gestite o con cui non si riesce ad entrare in contatto.

2 . La seconda fase detta della “stagnazione” l’individuo che si rende conto di essere sottoposto a carichi di lavoro e di stress eccessivi, inizia a prendere coscienza che le sue aspettative non coincidono con la realtà lavorativa. A questo punto, nonostante le energie profuse, gli sforzi e i sacrifici, l’entusiasmo, l’interesse ed il senso di gratificazione legati al lavoro e in particolare alla professione che volge, iniziano a diminuire.

3 . La terza fase si manifesta con un sentimento di “frustrazione”. Il professionista, l’insegnante, il lavoratore in generale affetto da burnout avverte sentimenti di inutilità, di inadeguatezza, di insoddisfazione, uniti alla percezione di essere sfruttato, oberato di lavoro e poco apprezzato. Questo comporta che la mente si difenda mettendo attraverso l’evitamento difensivo del dolore provocato dalla mortificazione, dalla frustrazione e talvolta dall’impotenza per non riuscire a svolgere bene il proprio lavoro o dalla delusione per gli ideali traditi,  tende a mettere in atto comportamenti di fuga dall’ambiente lavorativo, la fuga è un funzionamento difensivo della mente che da sempre permette alle persone di salvarsi nelle situazioni di pericolo. L’ambiente è quindi percepito inconsciamente come “pericoloso” per la propria salute fisica e mentale e spesso lo è davvero. Ma la fuga può anche implicare l’attacco, per cui nell’impossibilità di fuggire realmente, come ultima barriera contro la depressione può giungere la rabbia che può essere verso gli altri con atteggiamento aggressivi o verso se stessi, sempre pericola poiché causa essa stessa di depressione.

4 . Nella quarta fase  insorge l’ “apatia”, l’interesse e la passione per il proprio lavoro si esauriscono fino a spegnersi completamente, all’empatia subentra l’indifferenza, fino ad arrivare nei casi più severi, ad una vera e propria “morte professionale” che ha spesso dei correlati anche nella salute.

Da un punto di psichico si possono avere depressione, ansia, fobie, somatizzazioni, insonnia, depersonalizzazione, sviluppo di dipendenze patologiche, peggioramento della qualità della vita personale e delle relazioni affettive e familiari, aumentato rischio di suicidio; da un punto di vista fisico emicrania, immunodepressione da stress, peggioramento generale dello stato di salute, problemi di sonno e di peso, stanchezza e astenia, ipertensione, disturbi del ritmo cardiaco, malattie dermatologiche (della pelle).

Esistono forme di prevenzione sul posto di lavoro?

Sì, certamente. Nel 2017 l’INAIL (l’Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro) ha predisposto un Manuale e la documentazione necessaria ad uso delle aziende, con una metodologia per la valutazione e gestione del rischio stress lavoro-correlato e la prevenzione del burnout. Il Manuale fornisce le Linee Guida per poter gestire e portare a compimento una efficace valutazione del rischio stress lavoro-correlato.

Il percorso metodologico è basato su un approccio “olistico e partecipativo” e prevede il coinvolgimento coordinato e integrato dei lavoratori con tutte le figure professionali deputate alla prevenzione (il datore di Lavoro, il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza e il Medico Competente). L’approccio di tale Linea Guida per la gestione del rischio da stress lavoro correlato e prevenzione del burnout è diviso principalmente in due fasi: 1. La fase della valutazione oggettiva preliminare e 2. La fase della valutazione soggettiva approfondita.

Tra le forme di prevenzione non deve mai assolutamente mancare una adeguata azione di informazione e formazione, a carico del Datore di Lavoro come previsto per legge dall’ex art. 36 DLgs 81/08 e nella formazione ex art. 37 del DLgs 81/08 ed ex Accordo Stato Regione del 21.12.11. Un valido metodo di prevenzione sono i Gruppi Balint.

Che cosa sono i gruppi Balint?

I Gruppi Balint prendono il nome del loro ideatore, Michael Balint medico di famiglia ungherese, sposato con una psicoanalista, Alice,  formatasi al metodo analitico con Sandor Ferenczi, allievo di Sigmund Freud e che lavorò a Budapest come analista fino al 1939. Trasferitosi in Inghilterra come rifugiati, Balint alla fine della guerra entrò a far parte dello staff della Tavistock Clinic di Londra, dove a partire dai primi anni Cinquanta iniziò ad occuparsi della formazione dei General Practitioner (i medici di famiglia), nacquero così i gruppi di training che presero il suo nome. Questo tipo di gruppi sono un metodo di lavoro di gruppo originariamente destinato ai medici e alle altre professioni di cura e d’aiuto, che ha come scopi la formazione psicologica alla relazione con il paziente, la “manutenzione del ruolo curante” e la promozione del benessere lavorativo. Ormai i Gruppi Balint rappresentano una metodologia collaudata di formazione di gruppo, creata originariamente per l’addestramento psicologico dei medici di famiglia e adattata successivamente ad altre figure professionali. I gruppi Balint sono utilizzati per i professionisti dell’area medica, sociosanitaria e assistenziale ma anche della scuola e più in generale per tutti coloro che svolgono professioni di cura e d’aiuto.

Che fare personalmente per prevenire o affrontare il burnout?

Per prevenire il burnout, combatterlo e superarlo ci sono alcune buone regole che possono aiutare:

1. Prendersi cura di sé. Recuperare sane abitudini: esercizio fisico, alimentazione corretta, ore di sonno

2. Coltivare buone relazioni. Ritrovare e stringere nuovi rapporti personali gratificanti e significative con persone con cui avere una buona intesa e condividere interessi. È importante riconoscere le emozioni negative e lo stress e condividere questi vissuti con le persone sanno ascoltare con attenzione e affetto.

3. Eliminare fumo e junk food (cibo spazzatura), danneggiano il corpo e la mente.

4. Evitare droghe, alcool e ogni forma di azzardo che possa creare dipendenza patologica

5. Rivedere il modo in cui ci si rapporta al lavoro: se non è possibile cambiare lavoro, è necessario cambiare il modo di lavorare, il modo

6. Rivediamo quante ore al giorno si dedicano al lavoro, compreso il tempo oltre e fuori dall’orario lavorativo. Se la mente continua a lavorare ostacola un buon emotivo e il sonno.

7. Se la quantità di lavoro quotidiano sovrasta le proprie forze, è il momento di cercare un cambiamento positivo: un nuovo modo di lavorare con i colleghi di pari grado e confrontarsi con un superiore su ruoli, mansioni e carichi di lavoro.

8. Coltivare attività extralavorative gratificanti, da soli che in compagnia di qualcuno o in gruppo. Hobby o veri e propri impegni extralavorativi che siano fonte di benessere.

9. Sapersi fermare al momento giusto per spezzare il circolo vizioso del burnout. Mai rinunciare a ferie, pause, festività e anche a momenti di allegria e leggerezza in famiglia e con gli amici.

10. Avere un rapporto equilibrato con i Social che possono essere fonte di stress aggiuntivo se non ben gestititi soprattutto in momenti di fragilità e stress.

11.  Rivolgersi ad uno psicoanalista

Quando è necessario rivolgersi ad uno psicoanalista?

Individualmente quando si comincia a provare disagio e difficoltà sul posto di lavoro, associato a disturbi del sonno e tristezza. Ma anche quando ci si sente irritabili, non si evitano i conflitti e scompare il piacere delle piccole cose della vita di ogni giorno. La mancanza di piacere, l’insonnia, la stanchezza, l’irritabilità sono sintomi depressivi che si manifestano sul posto di lavoro.

All’inizio il disagio si manifesta quando si pensa o si parla del lavoro mentre fuori dall’ambito lavorativo c’è una sensazione di sollievo e di vera e propria “rifioritura”, questo è già il momento in cui rivolgersi ad uno psicoanalista per comprendere quello che sta accadendo, per entrare in contatto con le proprie emozioni negative, valorizzare quelle positive, cercare i propri punti di forza, individuare quelli di fragilità in modo da poter porre rimedio alle difficoltà in ambito lavorativo, siano queste provocate da un surmenage ovvero un sovraccarico lavorativo sia da un momento di cedimento personale, per i motivi più vari, in cui il carico lavorativo non è più sopportabile. L’intervento precoce è sempre l’arma vincente poiché col tempo le forze psichiche tendono a scemare, le difese ad aumentare, la qualità della vita a peggiorare, l’ansia e la depressione “da lavoro” e “sul lavoro” possono sfociare in una vera e propria sindrome ansioso-depressiva.