“Di Questi Tempi”, disco d’esordio di Evocante: “É in controtendenza”

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Evocante è lo pseudonimo di Vincenzo Greco. Nato a Vibo Valentia, ma sempre vissuto a Roma, è un docente Luiss che fa musica da oltre 30 anni ma che solo ora si è deciso a pubblicare qualcosa di più serio e definito

evocanteUn disco in cui la musica rock si sposa con la canzone d’autore tra sonorità quasi psichedeliche e sperimentali. In questo modo potremmo riassumere l’essenza del disco d’esordio di Evocante intitolato Di questi tempi, uscito il 28 febbraio del 2022. Evocante è musica rock alternativa, e non solo. Sicuramente indipendente, quietamente passionale, necessariamente d’impatto. “Di questi tempi“, album d’esordio, è un concept d’altri tempi coniugato al tempo presente. Nove dettagli, presi da immagini in movimento, sui tempi che viviamo, tra la finzione dei social, l’azzeramento dei rapporti, la mortificazione del pensiero e la cancellazione del tempo, ormai ridotto a pura e mera istantaneità, che non ammette valutazione, riflessione e tanto meno il dubbio. In una corsa affannata e senza senso verso non si sa cosa e dove, favorita dall’informatica “che rende comode le nostre vite”, divenute sempre più inconsapevoli vittime della “religione del fatturato”.

Evocante è anche il nome del gruppo che porterà live, con arrangiamenti ancora più rock, “Di questi tempi” insieme ad altre canzoni, tutte originali, e una sola cover del Battiato sperimentale che non t’aspetti. Lo spettacolo, dove il forte impatto rock si mescola ad atmosfere sospese e oniriche, si intitola “Effetto spiazzamento” ed è una costante ricerca emozionale di contatto empatico, e persino ironico, con il pubblico.

Evocante ci ha gentilmente concesso un’intervista.

“Di Questi Tempi” è il tuo disco d’esordio, di che cosa si tratta?

E’ un disco in controtendenza rispetto alle mode attuali. Innanzitutto perché nasce come album e non è preceduto da pubblicazioni singole, pur avendo un singolo, “In piazza”, pubblicato nella stessa data d’uscita del disco. Come si faceva un tempo. E poi perché è un concept album, e questo spiega il perché della scelta di uscire in modo compatto e non diluito, come si fa ora con gli EP. Il concept album è un concetto recuperato dagli anni ’70, in cui si facevano dischi spesso su un unico tema, affrontato nei suoi vari aspetti. Infatti, “Di questi tempi” è un concept sui tempi che stiamo vivendo e le sue canzoni, tranne quella iniziale, intimista, dal voluto effetto spiazzante, raccontano i tempi che viviamo. Caratterizzati da una velocità impressionante con cui circolano le opinioni, le informazioni, le richieste di pareri, senza che vi sia alcuno spazio per la riflessione, tanto meno per il dubbio. A ben pensarci, si è realizzata la profezia di Andy Warhol che diceva che tutti avrebbero lottato per un quarto d’ora di celebrità: sui social spesso vediamo persone, in affannosa ricerca di visibilità raccontare, attraverso foto o video o, meno spesso, testi, cose irrilevanti, che non interessano nessuno. A partire da quello che si mangia: “In piazza”, la canzone che affronta in modo ironico e anche giocoso questo tema, inizia proprio con il verso “quello che mangi lo metti in piazza”. Tempi di odiatori e complottismi vari, in cui il populismo si fa ideologia imperante prendendo il posto del popolare, e quindi illudendo le persone di parlare a nome loro e nei loro interessi, mentre non è affatto così (se ne parla in Persongente). Tempi in cui una generazione scopre che ha lasciato molto poco a quella successiva, che infatti, spaesata, non sa bene dove volgere lo sguardo (Io contro tutti). In cui “non c’è più tempo” per fare nulla, presi da tante cose di cui spesso neanche ci accorgiamo (Non c’è più tempo è una canzone dall’ascolto facile, ma figlia delle mie letture di Heidegger, Pasolini e degli ascolti di Giovanni Lindo Ferretti sull’inganno della tecnica e dei tempi moderni). Però le tre canzoni finali, l’ultima strumentale, che non a caso smorzano i ritmi e anche i suoni, attenuano, per così dire, l’inquietudine facendo intravedere, in una preghiera laica come Salvami, e in una canzone sull’inevitabile apertura della vita come L’ultima volta, una via d’uscita dalle storture del “tempo moderno”.

Cosa vuoi trasmettere con questo disco?

Innanzitutto, l’invito a perdere coscienza di quello che si fa e come lo si fa. Su questo, è centrale la canzone che dà il titolo all’album. Vorrei fosse recuperato il concetto di tempo, purtroppo ridotto a mera istantaneità, e tutto quello che comporta tale recupero, ovvero l’attenzione alle cose, allo spazio per maturare una decisione, che non può e non deve essere immediata, come invece ora si richiede. Anche per cambiare idea. Insomma, prendersi tempo ora è visto come sinonimo di perdere tempo. E invece il tempo si perde, fino proprio a farlo sparire, proprio nell’affannarsi dietro a un sacco di cose che non contano. Prendersi tempo vorrei tornasse a significare un prendersi cura. Lo faccio con un disco dai temi complessi e dai testi ricercati, ma vestiti con un abito musicale immediato, ritmato, rock, con canzoni d’impatto che spero comunichino già qualcosa al primo ascolto. Consapevole che… “non c’è più tempo” per ascoltare un disco tante volte, come si faceva un tempo.

Che tipo di accoglienza ti aspetti?

Mi piacerebbe suscitare un sentimento di curiosità, che per me è il motore un po’ di tutto. Che chi ascolta questo disco non si domandi solo “ma chi è questo qua?” ma anche “perché ci tiene a dire queste cose?”. E magari vada a sentirsi altre cose che ho scritto, che già trova sul mio profilo YouTube, e che saranno risistemate nel prossimo disco e nei concerti che farò con il gruppo rock, che pure si chiama Evocante. Quanto al pubblico a cui mi rivolgo, sono, per diversi motivi, un orfano di Franco Battiato, il mio principale punto di riferimento artistico (e non solo), dei CCCP Fedeli alla linea e dopo dei C.S.I., un gruppo che negli anni ‘90 ha scardinato la grammatica del rock italiano con pochi dischi straordinari. E anche un po’ di Ivano Fossati, cui qualcuno ha accostato, con mia grande sorpresa, il mio approccio musicale. Sarebbe molto bello che altri orfani come me, sentendo queste canzoni, si sentano un po’ meno soli, senza per questo dire che valgono quanto quei monumenti irraggiungibili, sarei un presuntuoso anche solo a pensarlo.

Come nasce il tuo progetto musicale?

Il progetto nasce osservando il fatto che nella musica italiana quasi tutti sono ripiegati nel proprio privato. Nel cantare quanto sono felici o tristi e malinconici, sono comunque tutti presi solamente dai fatti propri, dalla loro relazione amorosa o al massimo dalla loro cerchia di amici. In pochissimi, tra cui cito Massimo Zamboni (anche se non è il solo), si sono recentemente presi la briga di raccontare i tempi che stiamo vivendo. E’ questo buco che mi ha spinto a fare un album del genere. Poi, io insegno alla Luiss e da anni sto svolgendo un corso sull’utilizzo dei social. Approfondendo, a livello giuridico, psicologico e sociologico, argomenti come le fake news, i reati commessi a mezzo Internet e sui social, l’hate speech, il complottismo, posso ben dire che l’ispirazione mi è venuta anche preparando le lezioni e confrontandomi con i più giovani. Musicalmente, invece, il progetto parte da molto lontano, facendo io musica da più di 30 anni, ma senza mai fissare su un disco le mie canzoni. A 50 anni mi sono preso lo sfizio di farlo, per lasciare una traccia, esilissima probabilmente, ma presente. Un messaggio in una bottiglia lanciata nell’immenso mare delle piattaforme musicali. Che qualcuno magari raccoglierà. E questo mi basta. Anche se non mi fermerò, avendo già in cantiere un altro disco di canzoni, stavolta non concept, uno solo strumentale, di musica c.d. sperimentale, e concerti da fare, magari recuperando anche i “videomusiracconti” da me girati che anni fa, con gran dispendio di energie e creatività anche “videonarrativa” e cinematografica, portavo in giro per qualche locale, suonando contemporaneamente dal vivo.